Cabbalà, Yarona Pinhas: «Vi parlerò di Or, luce, la prima parola pronunciata nell’universo»

di Marina Gersony (video di Orazio Di Gregorio)
Come abbiamo anticipato su questo sito, domenica 2 dicembre Yarona Pinhas – scrittrice e studiosa di mistica ebraica –, ha fatto il suo attesissimo intervento al Museo Nazionale della Scienza e della Tecnologia Leonardo da Vinci nell’ambito del Festival Jewish in The City. Un discorso di alto spessore spirituale e culturale – intitolato Bereshìt: la luce nella parola. La Cabbalà – che ha entusiasmato il pubblico e che riportiamo di seguito.

C’era un tempo in cui la terra era informe e vuota quando tutto ebbe inizio con la parola Or, luce, la prima in assoluto pronunciata nell’universo – ha esordito Yarona Pinhas  – ; un universo creato con il verbo amar, semplice espressione che realizza la volontà del Creatore: «“Sia Luce”. E luce fu». Amirà è la parola che illumina meirà, מאירה.

La studiosa ha dunque spiegato la connessione affascinante e sorprendente tra i numeri, le lettere, le parole e l’essenza delle cose: per esempio come Or, la venticinquesima parola nella Torà, e la Festa delle Luci, Chanukà, che cade proprio nel 25° giorno, kaf-he, כה del mese di Kislev. Non solo: la parola Chanukà si divide in chanuka, cioè la 25° tappa, e si riferisce alla sosta che fecero i figli d’Israele nel deserto, nel luogo detto Chashmonà, nome che ricorda la dinastia degli Asmonei: «Partirono da Mithcà e s’accamparono a Chashmonà» (Numeri 33:29).

Sono cinque le volte in cui si ripete la parola «luce», or, nei primi cinque versi della Genesi – ha proseguito Pinhas –.  E sempre cinque sono i libri della Torà (Pentateuco): in ogni suo apparire questa luce dà origine a un libro, séfer, della Torà. Ogni or, אור diventa ot, אות, segno (lettera) e pulsazione, ogni luce spirituale racchiusa nella lettera diventa una creazione materiale. La Torà inizia con il Bereshìt, la nascita del mondo, il principio, e si conclude con la nascita del popolo d’Israele. Man mano che si procede nella lettura ci si sposta dai massimi sistemi, dalla storia universale della Creazione alla formazione di un popolo, una nazione chiamata Israele e guidata da leggi e precetti di origine divina.

Nes e nisaiòn

Certo, non è facile cogliere subito tutti questi significati e le vibrazioni sottili contenuti in ogni lettera e in ogni parola, e il discorso è indubbiamente complesso, ma Yarona Pinhas possiede quella grande dote dell’empatia accompagnata dalla capacità di comunicare concetti in apparenza ostici. L’ascoltatore attento impara così, tra l’altro, che per poter godere della luce di una candela, la si deve preparare prima con cura: la cera, lo stoppino, il fiammifero. Ed è questo il periodo che precede Chanukà, ombre e luci in alternanza, la lotta tra le forze della santità e l’oscurità e poi la festa stessa che annuncia la vittoria della luce, l’inaugurazione della nostra casa interiore.

Parliamo spesso della lotta tra la luce e il buio e poco ci rendiamo conto che la lotta stessa è già in sé un traguardo, poiché tanti rinunciano a priori. Nulla è nello stato completo e perfetto – ci dice Pinhas –, il messaggio del mese è che in ogni nisaion,  נסיון esperienza ci aspetta il nes,  נס  miracolo.  La Torà ci racconta episodi di lotta poiché la vita è la lotta. Nulla va come si vuole, ma stiamo provando, stiamo lottando, così come fece Giacobbe nel buio della notte con l’angelo. Dio vede la lotta, apprezza la lotta e ama il fatto che ce la mettiamo tutta, che non rinunciamo e che ci stiamo provando. A volte è difficile trovare il miracolo nell’esperienza, ma stiamo provando, stiamo lottando  ed è questo ciò che conta.

La Parola

Cos’è la parola? Come possiamo definirla? Ed ecco un altro quesito appassionante che Yarona Pinhas ci pone: la parola è un’arma a doppio taglio: può essere un dvir, arca santa, o diffondersi come un’epidemia di peste, dever. Il controllo della «lingua cattiva» lashon hara’, è uno dei capisaldi dell’etica ebraica, particolarmente attenta agli effetti devastanti della parola pronunciata con leggerezza. Cosa vuol dire? Quando una persona provoca ad un’altra una determinata sofferenza, sia fisica che morale o sentimentale, dalla stessa sofferenza egli stesso sarà colpito.

Il marchio della parola è indelebile, la parola cattiva uccide l’anima: «Uomo senza conoscenza, anima (parola) non buona» (Proverbi 19:2-3), ed è importante sottolineare che la parola usata per anima è nefesh, soffio vitale, sinonimo di «parola» e «linguaggio». Un insieme di parole forma una frase, la parola «frase», mishpat, significa anche «giudizio».  Ogni nostra frase è una sentenza di vita o di morte e colui che giudica l’altro, verrà a sua volta giudicato dall’altissimo. Forse non tutti sanno che questo è il vero senso della frase «occhio per occhio, dente per dente»: il criterio di giudizio che hai adottato nei confronti dell’altro sarà usato per giudicare te. Il consiglio dei Saggi: «Giudica ogni uomo in merito» (Pirqé Avòt 1:6).

Colui che non si àncora alla parola veritiera naufraga nel mare della fantasticheria, della confusione e dell’immaginazione. La conoscenza investiga sulla verità, e la verità è il cuore della bellezza e dell’armonia. È il tov, buono, celato nel cuore di ogni cosa.  

La bella parola viene sempre gradita, così anche la parola che trasmette il buono, perché svela quel nucleo nascosto di bontà e ciò che è oscuro diventa luce. «Merita di essere baciato sulle labbra colui che dà risposte rette» (Proverbi 24:26) e i nostri maestri esortano: «Se vuoi essere ascoltato orna le tue parole con gemme di bontà e fai emergere in chi ti ascolta il senso della giustizia».

Le due menorà: sette e otto bracci

A questo punto, rimanendo in tema di Chanukà, è bene sapere, come illustra Pinhas, che il candelabro a sette bracci era posto nel Santuario: «Il Signore parlò a Mosè dicendo così: parla ad Aron e digli: “Quando accendi i lumi, fa che i sette lumi mandino la luce verso la parte anteriore del candelabro”». (Numeri 8:1-2). In ebraico è scritto letteralmente “Fa che i sette lumi mandino la luce verso il viso del candelabro”, el mul pnè hamenorà. Il nostro viso è una lampada a sette bracci: le due orecchie, gli occhi, le narici e la bocca. In totale sette fori che devono essere costantemente purificati: ascoltare la Parola e la nostra voce interiore Shema’ Israel, osservare con modestia e con «occhio buono», ossia benevolo, ciò che ci circonda, odorare il profumo dello spirito purificato (il Messia riconoscerà il livello spirituale delle persone dal loro odore), mangiare e parlare kasher, cioè correttamente, con consapevolezza, vale a dire saper distinguere l’impuro dal puro, la parola che uccide l’animo umano da quella che lo vivifica. Le luci che si accendono nella caverna delle nostre ombre interiori, scoprono la luce infinita nella realtà finita dell’uomo. Il popolo d’Israele santifica il tempo, benedice ogni luna nuova simbolo del femminile, della conoscenza velata e della fede. Questo, in esatta opposizione al pensiero occidentale-razionale che, infatti, utilizza un calendario solare.

Questa è la lotta tra i figli d’Israele e il mondo ellenistico di cui parla la festa di Chanukà: la fede cerca di liberarsi dall’oppressione e dalla schiavitù imposte dalla conoscenza razionale e categorica, dalla forza dell’immaginazione distorta, dall’oblio, dall’idolo della bellezza e dall’adorazione del corpo. Ciò impedisce di vedere l’essenza delle cose per poi poterle trasformare – questo è il vero significato del miracolo: l’illuminazione di un nuovo pensiero liberatorio e innovativo che trasforma la nostra realtà tramite l’azione giusta. Condizione necessaria per partecipare al processo conoscitivo ed evolutivo cui siamo chiamati dalla bontà di Dio è la fede. La fede è la lampada, il recipiente che contiene l’olio della verità e della saggezza. L’essere umano vive tra la luce esteriore, che l’aiuta a scoprire ciò che gli sta attorno, e lo svelare della luce interiore, la luce della Parola.

Dopo la distruzione del Tempio, si accende annualmente un candelabro a otto bracci nella nostra casa che è il nostro Tempio privato. L’otto, quindi simboleggia il superamento del ciclo naturale, del tempo che si avvolge in se stesso in un eterno ritorno. Mentre la radice della parola sette, sheva’, שבע significa in ebraico anche sazietà, savea’ e giuramento shevuà; otto, shemone, שמנה allude a shemen, olio e  a shamen, grasso (da qui la tradizione di mangiare cose fritte…). E non solo: le stesse lettere in posizione alterata creano la parola neshamà, נשמה anima. Oltre il mondo sazio della materia, dunque, ci addentriamo nel mondo dello spirito che è l’origine della vera ricchezza dell’uomo e della Conoscenza. Per accedere alla nostra anima, abbiamo bisogno di una password: il nostro nome (le due lettere centrali di neshamà creano la parola, shem, nome).

«In principio Dio creò i cieli e la terra» (Genesi 1:1), sarebbe come dire: «In principio Dio creò il nostro cielo, shamaim, cioè il nostro nome  e la nostra terra, il corpo».
Per esempio, Mosè ha proclamato la presenza divina in terra, infatti, il suo nome ebraico, Moshè, משה  letto al contrario, diventa Hashem, השם cioè, il Nome (il nome generico usato dagli ebrei per indicare Dio senza nominare il Suo nome invano) che è la sorgente dei nostri nomi.

E cos’è la fede? Una luce talmente luminosa che ci vuole allenamento, imùn (stesse lettere di emunà) per poter contenerla in quanto va oltre il cervello razionale.    Rabbi Nachman afferma che oltre al cervello razionale, contenitore limitato, esiste un cervello superiore che è la fede, unico strumento che ci consente di «conoscere» Dio. La fede impone di essere «nudi», innocenti privi di «ragione»; paradossalmente, più l’uomo progredisce intellettualmente e più lo spazio della fede si restringe. Nel passaggio da una generazione all’altra ciò che era «fede» per la generazione precedente diventa «cervello» e natura per quella successiva; ciò che veniva percepito come magia o eresia agli occhi della storia diventa un dato acquisito e fruibile (persecuzioni subite per idee «eretiche» ad esempio, Gallileo Galilei, Giordano Bruno).

La fede non è un dono ma una vera e propria conquista. Il concetto è rafforzato dal verbo pregare, lehitpàllel, che in ebraico ha la forma riflessiva: la preghiera viene prima di tutto rivolta a se stessi e poi in alto. Il primo atto di fede è la fiducia in sé stessi, il pieno controllo di sé, la consapevolezza della potenza della preghiera.

Da quello che risulta dalla Torà, l’oscurità ha preceduto la luce come abbiamo visto. Ogni ebreo nella preghiera mattutina di shacharìt dice: «Benedetto Tu Hashem, nostro Dio, Re del mondo, che forma la luce e crea l’oscurità, yotzer or uvorè choshekh» (Isaia 45:7). Da qui, che Dio ha creato l’oscurità ma formò la luce.

Chanukà

Il nome Chanukà proviene dalla radice ch.n.kh., educare.
L’educazione e il lavoro sulle proprie qualità, middòt, sono la base per potersi mettere al servizio del Signore e dell’umanità. Il libro dei Proverbi consiglia ai genitori: «Educa il ragazzo secondo la sua via» (22:6), cioè, secondo la sua capacità d’intendere e di agire, «poiché il precetto è una lampada, la Torà è una luce e via di vita il rimprovero che corregge» (Ibid. 6:22).

È obbligo dei genitori, affiancati dai maestri, educare i figli e trasmettere loro il patrimonio culturale, etico e spirituale. Com’è detto dai Saggi: «Il mondo esiste solo per il respiro dei bambini che vanno a scuola»; «una città in cui non ci sono bambini che vanno a scuola sarà distrutta» e «non si può sospendere l’istruzione dei bambini neppure per la ricostruzione del Tempio» (Shabbat 119b).

Chanukà da ch.n.kh, inaugurare – la restaurazione del culto nel Tempio, l’inaugurazione di una nuova casa, chanukat-habait, la capacità di rinnovare o scoprire una nuova consapevolezza di noi stessi. Il compito del maestro è di aprire e illuminare nuovi orizzonti. Questo equivale al ritrovamento della luce nascosta dal tempo della creazione, l’or haganùz, cioè la ricerca del punto positivo, saggio, veritiero e celato in ogni essere umano e in ogni cosa.

La festa cade nel periodo più buio dell’anno e annuncia chiarore e speranza – la luce nasce dall’oscurità e così anche l’essere umano, la pianta o il libro. «Le tenebre erano sulla faccia dell’abisso… Dio disse: “Sia luce”. E luce fu». Dio vide che la luce era cosa buona e separò la luce dalle tenebre» (Genesi 1:2-4). Nascere significa – venire alla luce.
L’assenza o l’abbondanza di luce dilata o restringe le pupille e i cuori. In ebraico, la parola, «nero», shachor, שחר è simile alla parola shachar, alba; è grazie alla minuscola pupilla nera che abbiamo la capacità di vedere, però difficilmente riconosciamo nell’oscurità una nostra alleata, un potenziale che non si è ancora manifestato, un colore che non si è ancora espresso, una nota che non è stata cantata, e dunque la sorgente inesauribile della luce. In effetti, temiamo l’oscurità istintivamente.


Dice Rav Elimelech Bar-Shaul: «l’uomo nasce due volte: l’una, contro la sua volontà e l’altra rinasce nella sua mente, una volta per gli altri e una volta nasce a se stesso. La prima volta con le doglie del parto, la seconda con le doglie della conoscenza. La prima volta la nascita era un singolo evento mentre, la seconda volta dura per tutta la vita. La prima volta ha dato vita al corpo, mentre la seconda volta alla nascita di un’anima».

Le luci delle candele

«Chiunque compia una mitzvà è come accendere una candela davanti al Santo Benedetto Egli sia, e sostiene la sua anima, che è chiamata una candela, com’è scritto: “La candela del Signore è l’anima dell’uomo» (Shemot Rabba, Tezavé 3). In ogni sinagoga c’è il ner tamìd, una candela accesa sempre per ricordare la presenza di Dio, che ha creato la luce per tutti.

Nelle ritualità ebraica – Conclude Yarona Pinhas – i passaggi legati dal tempo profano al sacro, dai giorni feriali allo Shabbat o alle feste è celebrato con l’accensione delle candele. I passaggi di vita da un anno all’altro si festeggia con l’accensione delle candele sulla torta (con una candela in più anche per il prossimo anno) e anche nel passaggio tra vita e morte si accende ner neshamà, la candela dell’anima.