Un viaggio musicale: dalla Tripoli di Herbert Pagani, alla Alessandria d’Egitto di Georges Moustaki, al Nord Africa di Enrico Macias

di Esterina Dana
“Le  canzoni sono fotografie sociali, […] istantanee emotive del presente, del passato e di mondi  scomparsi, ma trasformati […] e rivissuti in altri contesti”. Questo è il tema dell’emozionante incontro svoltosi domenica 11 giugno dedicato al mondo musicale ebraico arabo attraverso la figura di tre cantautori: il libico Herbert Pagani, l’egiziano Georges Moustaki e l’algerino Enrico Macias (Pagani, Moustaki e Macias, cartoline musicali dal mondo ebraico arabo scomparso).

David Meghnagi e Roberto Zadik dialogano su un mondo tutt’altro che scomparso, sopravvissuto al momento drammatico della Seconda Guerra Mondiale, allorquando Hitler aveva progettato di attaccare anche il  Medioriente. Il tentativo fallì. Dopo la  Seconda Guerra Mondiale le comunità sefardite erano ridotte a piccoli gruppi sparsi in tutto il mondo arabo e nell’ex impero ottomano. Alcune si sono conservate a Istanbul e nelle zone limitrofe, altre sono emigrate verso Israele, una parte ha scelto di emigrare in Europa, negli Stati Uniti o nel Regno Unito, una parte ha portato con sé i suoi strumenti musicali. La musica è sempre stata un elemento essenziale nell’ebraismo. Nello specifico della liturgia, il hazan (cantore) è altamente considerato e molti cantori figli di cantori sono diventati cantanti o compositori. Poco si sa della storia degli ebrei del mondo arabo e del contributo che hanno avuto nel rinnovamento della musica araba in patria e nei paesi di immigrazione.

Zadik studia da anni la musica etnica e mediterranea, per creare una par condicio culturale tra il mondo sefardita e quello più noto ashkenazita. Tre sono gli aspetti comuni ai tre grandi musicisti in oggetto: lo sradicamento, il multiculturalismo e il sionismo. L’analisi dei loro testi è scandita con i loro brani musicali.

Lo sradicamento, centrale nella produzione musicale ebraica mediorientaleè il sentirsi a casa propria e, allo stesso tempo, percepire nel profondo dell’anima un sentimento di estraneità. Pagani, Moustaki e Macias sono allo stesso tempo figli ed espressione di molti mondi. La loro grandezza sta nella capacità di interpretare la bellezza di ogni luogo in cui sono e allo stesso tempo di conservare un resto sofferente legato a una perdita irriducibile”(Meghnagi).

Parlando di Herbert Pagani, Zadik ne rileva la modernità e l’anticonformismo; trattò con audacia tematiche anticipatrici e spregiudicate per l’epoca come la condizione degli immigrati (Gli emigranti), i problemi ecologici quali buco dell’ozono. E’ stato il più dichiaratamente sionista. Nel 1965 a 21 anni, Pagani, uomo di tante patrie (studiò nei collegi di Francia, Germania, Austria e Svizzera), aveva esordito con la canzone Lombardia, una riscrittura della canzone di Jacques Brel Le plat pais con cui definisce quella milanese sua identità di elezione.

Innovatore, realizza uno dei primi concept album; Albergo a Ore (1969), uscita in un’Italia moralista che gliela censurò, è la trasformazione di Les Amants d’un jour caricata di uno spirito esistenzialista. In Francia per vari anni, scrive diverse canzoni e traduce L’amicizia/L’Amitié, modificando musica e linguaggio. I suoi toni polemici si alternano tra una dolente sensibilità e una leggera ironia presente, Disegnatore capace, accompagnò alla musica una pittura che gli valse la definizione di “realismo fantastico”, una componente presente anche nelle sue canzoni. Nel 1975 compone Arringa per la mia terra/Playdoier pour ma terre. Scritta in italiano e in francese l’11 novembre 1975 dopo una pronuncia antisraeliana dell’ONU, è un’appassionata difesa identitaria e di Israele. Le ultime apparizioni nel mondo della musica di Herbert Pagani sono del ’76. Prevalgono sempre più il suo impegno politico, l’attivismo ecologico, la battaglia per la pace in Israele. Stella d’oro (1976) verte ancora sul tema dell’identità ebraica, ma espresso in termini metaforici; cambia il registro emotivo, nonché il livello metalinguistico; il tono sognante e dolente richiama la sua vicenda libica.

Parla di Libia, “la pagina vuota del grande libro dell’Islam”, per la prima volta nel 1987, nella veemente lettera allo spietato dittatore Gheddafi: è una panoramica sul suo modo di sentire la sua identità libica. Lettera ai fratelli uscita poco dopo sul Corriere della Sera, è l’ultimo atto pubblico di Herbert Pagani. Meghnagi ricorda che fu letta a New York al Primo incontro internazionale negli Stati Uniti dedicato alla storia degli ebrei di Libia e alla necessità di una presa di coscienza collettiva da parte delle Nazioni Unite sul dramma vissuto dagli ebrei del mondo arabo. L’iniziativa fu promossa dall’allora Presidente dell’Associazione degli ebrei sefarditi in Italia in un clima psicologico inquietante. L’incontro fu scandito da tre momenti: un concerto in musica araba con alcuni canto ebraici dell’epopea e della fuga degli ebrei dal mondo arabo da parte della sorella Miriam; una sua conferenza sulle memorie del pogrom del 1967 con una riflessione critica e politica; la lettera di Herbert Pagani che ebbe un grande impatto emotivo e cognitivo.

Georges Moustaki, nato ad Alessandria d’Egitto da una famiglia di Corfù ma di origine spagnola, non parlava greco. In Italia, nell’ottobre del 1969, è diventata molto popolare la sua canzone Lo Straniero/Le métèque. Ciò che la rende interessante è l’uso del termine “meticcio” che deriva dal greco e viene intenzionalmente scelto come “una rivendicazione positiva in contrasto con la svalutazione degli stranieri, in particolare quelli provenienti dal mondo arabo. In Italia tutto questo si perde e diventa semplicemente una rappresentazione dello straniero in senso generico” (Meghnagi). Gli stranieri, già presenti in Italia, erano cittadini italiani profughi dall’Egitto, dall’Iran e dalla Siria. Immigrati invisibili, la cui  storia non era percepita, né essi stessi ne parlavano, consapevoli che non c’era uno spazio autentico e pieno per essere ascoltati.

Alessandria d’Egitto, città dall’identità sefardita cosmopolita e di pacifica convivenza fra Greci, Italiani, Egiziani fino all’affermarsi del nazionalismo, diede i natali, tra gli altri, a Giuseppe Ungaretti, Filippo Tommaso Marinetti, Dalida (musa di Luigi Tenco). La descrisse bene lo scrittore  Nabis Mahfus che, consapevole della deriva che ha conosciuto l’antisemitismo  nel mondo arabo negli ultimi decenni, nei suoi romanzi non inseriva personaggi ebrei, precisa Meghnagi. Zadik sottolinea l’identità plurale di Moustaki che parla otto lingue, canta con voce pacata e si presenta con un look un po’ vagabondo e un po’ filosofo. Figlio di un libraio di Corfù, sceglie di autorappresentarsi come métèque: greco, egiziano, italiano come si definisce ne Lo Straniero/Le métèque  in un duetto con Enrico Macias in cui si mescolano i ritmi del ma’luf (musica arabo-andalusa).

In Alexandrie il cantautore rende omaggio all’Egitto; la sua nostalgia emerge sia nel testo, sia nell’andamento musicale che ricorda le danze greche accompagnate con il mandolino. Due canzoni sono esemplari della sua vena esistenzialista: La mia solitudine, che esprime il suo senso di sradicamento e isolamento, e Ma liberté, che allude al suo spirito libertario (aderì a gruppi anarchici).

Il terzo protagonista, Enrico Macias, nato a Costantina, era figlio d’arte. Nel 1961, a causa dei gravi problemi conseguenti alla Guerra in Algeria, fuggì in Francia. Durante il viaggio compose Addio Terra mia. Inizialmente la sua musica non era stata adeguatamente apprezzata nel paese a causa delle sue influenze musicali ancora legate alla tradizione. In seguito, integrata la sua tradizione musicale di provenienza con la realtà francese, divenne un portabandiera della canzone algerina in Francia, in Grecia, in Turchia, in Libano.

Macias scelse di descrivere la sua natura orientale in un duetto con Cheb Khaled, cantante di origine berbera e celebrità musulmana in Francia, uno dei padri del genere raï (canzone popolare algerina). Insieme scelgono di cantare L’Oriental.

Meghnagi ricorda che nelle dinamiche del mondo arabo i Berberi hanno resistito alle invasioni arabe e, secondo alcune leggende, una delle regine, Kahina, era ebrea. Nel movimento femminista di matrice nordafricana che si è sviluppato in Francia alcune donne musulmane si rifanno alla regina Kahina. La tradizione musicale berbera è caratterizzata da una forte “plasticità” identitaria. Ne Le mie Andalusie Macias allude all’Andalusia ebraica arabizzata e J’ai quite mon pais, è il suo manifesto creativo. Alla fine degli anni Ottanta cantò Ossè shalom per l’anniversario della nascita dello Stato di Israele: è una forte dichiarazione di ebraicità e coraggioso atto di sionismo da parte di un artista amato nei paesi arabi e ponte fra mondo ebraico e mondo arabo. Meghnagi sottolinea il fascino di questa canzone in cui vengono utilizzati tutti i timbri più arcaici della musica araba orientale mediante un codice musicale ashkenazita. Ossè shalom nel Talmud viene riportata non come una preghiera recitata dagli ebrei bensì da  Bilam, colui che, incaricato di maledire gli ebrei, invece li benedì. Affascinante in questa reinterpretazione talmudica il fatto che nel momento in cui Bilam pronuncia Yaassè shalom alenu ovvero pace per tutta l’umanità, chi dice amen sono gli ebrei. Quindi questi tre musicisti hanno coniugato nel loro interno il valore della loro appartenenza di origine con l’aspirazione alla pace universale intesa in senso messianico.

L’incontro si conclude con l’ascolto de L’erba selvaggia (1977), una delle ultime canzoni di Herbert Pagani, un inno corale sulla forza della parola.