‘Il caso Bartali: tra mito e storia’: un dibattito nell’evento kesher

di Michael Soncin

Gino Bartali, il famoso ciclista ha salvato o non ha salvato gli ebrei durante le persecuzioni antisemite della Seconda Guerra Mondiale? Come delineare i termini reali della vicenda? Come conciliare le numerosissime voci dei testimoni che ricordano i fatti con invece la scarsità di documentazione scritta circa le “imprese” del Gino nazionale?  “Tutto è iniziato l’8 gennaio del 2021, quando Gian Antonio Stella ha dato alle stampe un articolo in cui recensiva il libro di Stefano e Marco Pivato (L’ossessione della memoria – Bartali e il salvataggio degli ebrei: una storia inventata), che mettevano in dubbio il fatto che Bartali trasportasse documenti falsi nascosti nella bicicletta, e che fosse stato un salvatore degli ebrei. Da qui si è innescato un dibattito che si è fatto via via sempre più acceso”, ha spiegato Fiona Diwan, direttrice dei media della Comunità Ebraica di Milano, durante la conferenza “Il caso Bartali, tra mito e storia”, organizzata da Kesher e da Paola Boccia.

Presenti all’evento quattro ospiti, storici, studiosi e testimoni, introdotti da Diwan, direttamente coinvolti a livello di studi e personale, in questa vicenda: Sergio Della Pergola, professore emerito di Demografia dell’Università Ebraica di Gerusalemme, membro della commessione dei Giusti di Yad Vashem; Michele Sarfatti, storico degli ebrei italiani nell’Italia fascista, in passato Direttore del CDEC, che nel 2017 aveva già riflettuto sulla vicenda indagando l’andirivieni di Bartali in giro per la Toscana; Gian Antonio Stella, giornalista del Corriere della Sera, che ha recensito il discusso libro dei Pivato; Renzo Ventura, avvocato penalista, presente nella veste di testimone come figlio di una famiglia salvata da Bartali.

Inquadrando il contesto storico e la querelle in corso, Fiona Diwan racconta che Bartali muore a Firenze il 5 maggio del 2000 all’età di 86 anni. Mentre è in vita parla pochissimo della guerra e delle sue “missioni”. È infatti nel 2005, cinque anni dopo la sua scomparsa, che si comincia a raccontare di Bartali come salvatore di ebrei. Poco dopo, nel 2006, l’allora Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, gli conferisce post mortem la Medaglia d’oro al Valore Civile, e nel 2013 sulla base di una seria e approfondita istruttoria Yad Vashem lo nomina Giusto tra le Nazioni; infine, nel 2018, Israele giunge a dargli la cittadinanza onoraria. “Diventa così il simbolo italiano dell’integrità morale: fervente cattolico, l’asciutta semplicità di chi ripete “il bene si fa ma non si dice”, l’emblema italiano della Memoria, della lotta antifascista, ma anche un campione popolare che incarna le emozioni e i valori di una nazione che si sta costruendo nei primi anni del Dopoguerra. Un mito sportivo che ne faciliterà l’ingresso nell’Olimpo della grande storia”.

Due poli della vicenda: prove testimoniali e prove documentali

Dopo la sua scomparsa escono molti libri (oltre a farne un film per il grande schermo), a ribadire il ruolo di Bartali postino della pace. “C’è tuttavia un volume – precisa Diwan – che esce prima della sua morte, nel 1985, Sia Lodato Bartali: il mito di un eroe del Novecento, di Stefano Pivato, lo stesso storico che trent’anni dopo farà retromarcia rimangiandosi tutto e affermando di essersi sbagliato. Nel 2017, anche Michele Sarfatti, indagando su questa vicenda si rende conto che mancano prove, le testimonianze sono di seconda e terza mano, quelli che potevano direttamente raccontare sono già morti, non c’è nessuna registrazione, nessun documento scritto o fonte scritta”. E così, nel 2021 esce il libro a firma dei Pivato, dove l’intera vicenda viene in qualche modo liquidata per insufficienza di prove. Così, la storia viene messa in dubbio e prende corpo intorno a due poli. Da una parte ci sono le prove testimoniali, racconti di salvati, testimonianze, ricordi di persone che c’erano all’epoca dei fatti, considerati insufficienti; dall’altra, viene registrata l’assenza di prove documentali, mancano fonti scritte, malgrado i fatti siano numerosi e diversi.

Siamo nella Firenze del 1943, dopo l’8 settembre, sotto l’occupazione nazista. Qui abbiamo due grandi protagonisti, l’Arcivescovo Elia Dalla Costa, e Rav Nathan Cassuto, i quali com’è noto, mettono in piedi una rete di salvataggio che distribuisce documenti falsi per consentire ai perseguitati di mettersi in salvo; Bartali sarebbe uno dei corrieri, li nasconde nella bici. Con quei documenti le famiglie evitano l’arresto e la deportazione. C’è anche uno scantinato dove un ebreo di Pola, Giorgio Goldenberg, sia stato nascosto con la famiglia e che ne fornisce testimonianza a Guerra finita.

Legare la storia con la memoria

«Non esistono elementi per negare le testimonianze raccolte da Yad Vashem che sono cospicue, serie e messe a disposizione degli storici», sottolinea Sergio Della Pergola che giudica inaccettabile che si crei un clima di sospetto intorno all’operato di Yad Vashem. No, quindi, al negazionismo sulla nomina di Bartali, no alla delegittimazione di Yad Vashem, no a un discorso equivoco tra Storia e Memoria. Arrivare ad una corretta lettura delle realtà significa trovare una soluzione in grado di legare insieme la storia con la memoria. “È quello che cerca di fare Yad Vashem”, dice della Pergola.

Ma in che modo viene nominato un Giusto? “Il criterio per il riconoscimento dei Giusti fra le nazioni è espresso nel passo della Mishnah: Chiunque salva una vita, è come se avesse salvato un mondo intero. Ed è così che Israele agli inizi degli anni ‘50 esprime la sua gratitudine ai salvatori. L’attribuzione del titolo di Giusto compete a una commissione di una trentina di esperti, presieduta da un giudice emerito della Corte Suprema Israeliana, con delle regole molto serie e difficili da applicare. ll fascicolo di Bartali è stato aperto nel 2007, conclusosi dopo un attento esame nel 2013; sulla base dell’accumulo di testimonianze dei sopravvissuti, la Commissione ha deciso che meritava il riconoscimento. E i fascicoli di Giusti tra le Nazioni, compresi quelli di Bartali (a differenza da quanto riportato dai media) sono aperti al pubblico, comprese le relative testimonianze”, spiega Della Pergola.

Alcuni dei parametri di Yad Vashem? Il requisito che la persona abbia effettivamente operato per salvare la vita di uno o più ebrei senza tornaconto economico, che abbia messo a repentaglio la propria vita per salvare quella di un’altra persona, che l’azione di salvataggio non sia avvenuta in cambio di un vantaggio significativo, diretto o personale per il salvatore, e che il fatto sia chiaramente documentato attraverso più di una testimonianza, da parte dei salvati, ed a volte anche dai salvatori.

Dopo aver ampiamente illustrato con un efficace power point tutte le pezze d’appoggio testimoniali su cui, in parte, si è basato l’operato di Yad Vashem (fruibile nella registrazione della serata, più sotto), Della Pergola si è soffermato su alcune testimonianze e ha ricordato la ben nota rete di salvataggio fiorentina diretta dal cardinale Elia Dalla Costa e dal rabbino Nathan Cassuto. Della Pergola sottolinea in particolare che Bartali non nascondeva affatto, come si pensa abitualmente, i documenti nei tubi della bici ma che “in verità li metteva sotto il sellino, perché è la parte delicata, importante e più sacra della biciletta, che Bartali chiedeva espressamente di non toccare onde non compromettere gli allenamenti. Quando fu fermato da una pattuglia consentì infatti che si esaminasse qualsiasi parte salvo, cortesemente, non toccare il sellino. E così, definitivamente, sappiamo che non venivano arrotolati nel tubo del telaio. Lo disse lo stesso Bartali e Sara Corcos, che lo disse poi a Susanna Evron. «Mettiamo in chiaro una cosa, la memoria e la storia orale hanno un valore fondamentale, sono vere anche al di là della rielaborazione emotiva. Ma qui stiamo parlando di fatti, di persone salvate, non di emozioni”. Testimonianze incrociate, vissuti, memorie, fotografie: l’intervento di Della Pergola oltre a documentare personaggi e vicende ha dato così un volto anche alle voci dei salvati, fornendo chiarimenti significativi dell’intera vicenda.

La memoria è un organismo vivo

Dal canto suo, Michele Sarfatti ha riflettuto in modo critico su questa vicenda, sottolineando l’importanza di quelle che vengono chiamate prove documentali e ribadendo che le prove testimoniali, sebbene importanti, non bastano; Sarfatti ha ricordato che il lavoro dello storico è quello di  “stare dentro i documenti, dando valori diversi alle testimonianze e ai documenti non in scala gerarchica, poiché un documento può anche asserire il suo contrario”.

“Ci sono tre morti importanti in questa storia: uno è Nathan Cassuto, arrestato per una spiata e ucciso nel febbraio del 1945, Mario Finzi, morto ad Auschwitz, dopo la liberazione di Auschwitz, ed il terzo è Giuliano Treves, morto come partigiano resistente durante la liberazione di Firenze. Come mi rapporto io alle testimonianze? La memoria è un organismo vivo, che si modifica nel tempo, che non è fisso, non è immutabile, anche la memoria si muove in prospettiva, si trasforma, può essere fallace – il che non vuol dire che sia falsa-. Le memorie vanno discusse ed esaminate dagli storici. È il cumulo delle testimonianze che rende legittimo un racconto, lo travalica, e lo fa diventare storia. Ed è quello che io ho fatto sulla rete di Firenze, davanti all’evidenza che Bartali non avesse legami apparenti e provati con la rete di chi distribuiva documenti falsi”, ha detto Sarfatti.

La madre salvata da Bartali

“Sono un giurista – ha affermato Renzo Ventura rievocando la testimonianza della madre – e il mio compito è stato quello di analizzare le prove, quelle testimoniali comprese. L’analisi delle prove testimoniali va fatto secondo certi criteri. Perché mia madre nel 1960 avrebbe dovuto raccontarmi che Bartali portava i documenti falsificati a chi doveva scappare? Perché mai avrebbe dovuto inventarsi una storia del genere? Bartali ha aiutato famiglie che non si conoscevano tra di loro, eppure tutte hanno riportato la stessa testimonianza di salvezza. Io stesso sono qui in veste di testimone di avvenimenti oggettivi, ho prove documentali in mano che nessuno ha, come le carte d’identità false in possesso di mia madre. Io so che le ha portate Bartali. Di tutti noi qui presenti, sono io l’unico che ha ascoltato la fonte. Mia madre, negli anni 60, e tutte le altre famiglie ripeterono la stessa identica cosa. Nella testimonianza di mia madre c’è una valutazione importante da fare: i Giusti non esistevano all’epoca del racconto dei fatti, pertanto non esiste alcun fine secondario, non c’era intenzionalità né volontà di erigere monumenti a Bartali o nel volerne santificare la memoria. Mia madre non aveva nessun interesse a mentire. Se leghiamo il tutto, ecco allora che emerge quella che si chiama la prova logica”.

Infine, il giornalista del Corriere della Sera, Gian Antonio Stella, ha parlato delle varie edizioni dei libri di Pivato, usciti nel corso degli anni, in merito alla vicenda Bartali, e delle diverse parti che ne sono emerse da un’edizione all’altra. Stella ha tenuto a ribadire che non ha mai inteso sostenere le tesi di una o dell’altra parte, ma di riportare i fatti, oltre ad essere chiaramente consapevole che le rivelazioni dell’ultimo libro da lui recensito avrebbero sollevato un polverone.

Con equilibrio, va quindi convenuto che se Bartali aiutò molti ebrei nella fuga grazie ai suoi buoni uffici di campione leggendario, è forse sul quantum che si appunta la querelle, ovvero su un numero, probabilmente più esiguo di quanto si pensasse inizialmente, dei salvati. Ma se anche si fosse trattato di una sola persona, non sarebbe forse bastato?