Israele e il riconoscimento del genocidio armeno, una questione irrisolta

di Nathan Greppi
Chi, il 24 aprile, si ritrova a passeggiare nel quartiere armeno di Gerusalemme, non può fare a meno di notare lo striscione lungo le mura di chi protesta per chiedere il riconoscimento del genocidio degli armeni perpetrato dai turchi durante la Prima Guerra Mondiale, più conosciuto come Metz Yeghern, di cui il 24 aprile ricorre la Giornata del Ricordo. Il fatto che Israele non abbia mai riconosciuto questo genocidio, per non compromettere i rapporti strategici con la Turchia, è spesso motivo di attrito tra i due popoli.

Di questo si è parlato domenica 9 gennaio in una conferenza su Zoom organizzata da Kesher, dal titolo Israele e il genocidio armeno, tra riconoscimento e real politik. Il dibattito, facente parte della serie Incontri in Guastalla, è stato moderato dalla giornalista Marta Ottaviani.

Uno dei due relatori, lo scrittore Vittorio Robiati Bendaud, ha ricordato che il primo testo di grande successo sul genocidio armeno, il romanzo I quaranta giorni del Mussa Dagh, è stato scritto nel 1933 dall’autore ebreo di Praga Franz Werfel, mentre l’altro grande romanzo su questi fatti è La masseria delle allodole dell’italo-armena Antonia Arslan, co-relatrice dell’incontro. Ha spiegato che le radici del non riconoscimento del genocidio da parte occidentale affondano in parte nelle dinamiche della Guerra Fredda, quando l’Armenia era sotto il dominio dell’URSS e la Turchia era un alleato strategico per gli Stati Uniti nella regione. Ciò ha influenzato anche il mondo accademico statunitense, dove vi è una radicata scuola di pensiero che vede nella Turchia un importante alleato e che per questo ha avallato il negazionismo del genocidio. Di questa scuola di pensiero hanno purtroppo fatto parte anche importanti storici ebrei americani come Bernard Lewis e Guenter Lewy.

Per quanto riguarda la politica d’Israele sulla questione, anche per loro la Turchia ha rappresentato a lungo un partner fondamentale, sia perché più laici e tolleranti dei paesi arabi, sia perché già sotto l’Impero Ottomano gli ebrei erano molto integrati socialmente; di contro, chi si opponeva di più alla loro presenza erano proprio le chiese cristiane d’Oriente, che storicamente sono ferocemente antisemite. Oltre ai rapporti con la Turchia, oggi hanno un’importanza geopolitica rilevante per Israele anche quelli con l’Azerbaijan, nemico giurato dell’Armenia, poiché è un alleato fondamentale in chiave anti-iraniana.

La Ottaviani, che per anni è stata corrispondente da Istanbul per i quotidiani La Stampa e Avvenire, ha ricordato che con il Covid i grandi temi di politica internazionale sono passati in secondo piano nell’opinione pubblica, e ha citato come esempio proprio gli scontri avvenuti nel 2020 nella regione del Nagorno-Karabakh, contesa tra l’Armenia e l’Azerbaijan, nonché i tentativi di Putin di presentarsi come un mediatore tra le parti in causa per accrescere l’influenza russa nel Caucaso. Riferendosi invece alla sua esperienza come corrispondente, ha raccontato che quando viveva a Istanbul la comunità ebraica e quella armena erano molto unite.

Alla domanda su come si può fare per riflettere tutti insieme sui grandi genocidi del passato per evitare che si ripetano oggi, la Arslan ha risposto che “questa mancanza di riconoscimento è anche una questione emotiva. Il fatto che la real politik non riesca ad avere ragione di una questione simbolica.” Ha ricordato che il più delle volte l’impatto è soprattutto simbolico, poiché i paesi che lo riconoscono il più delle volte poi continuano a fare affari con la Turchia, sono sempre atti simbolici che non hanno molte conseguenze pratiche, tranne una: “Oggi gli armeni non si sentono più soli, non si sentono più dei dimenticati. Oggi la coscienza che molti stati riconoscono che questo è successo davvero, e questo ha dato agli armeni una coscienza di sé,” che li sta facendo riemergere dal silenzio.