Ebraismo e Islam alla Giornata della Cultura

di Ester Moscati

La presidente del Bené Berith Europa Erika Van Gelderun con la presidente delle donne musulmane italiane Dounia Ettaib
La presidente del Bené Berith Europa Erika Van Gelderun con la presidente delle donne musulmane italiane Dounia Ettaib

 

“Dobbiamo trasformare l’esilio in esodo, il che significa caricare di significati positivi la nostra esistenza. Dobbiamo saper mantenere integra la nostra psiche per non perdere la capacità di sognare”. Queste le parole che hanno segnato l’intervento prezioso di David Meghnagi alla sessione di apertura della XVI Giornata europea della Cultura ebraica, domenica 6 settembre nel Tempio Centrale di Milano. Come a dire che il dolore dell’esilio va curato, compreso, risolto e superato, guardando al futuro, senza perdere la speranza.

La mattinata si è aperta con i saluti istituzionali delle autorità, con gli assessori Davide Romano e Gadi Schonheit ad accogliere gli ospiti e il pubblico, insieme ai Copresidenti Raffaele Besso e Milo Hasbani. Il tema della Giornata, “Ponti e attraversamenti” non poteva prescindere dai riferimenti alla drammatica attualità, con migliaia di profughi che stanno attraversando l’Europa in questi giorni, tra Paesi che approntano ponti per l’accoglienza e altri che innalzano reti di filo spinato e marchiano gli esseri umani in fuga.

Così Davide Romano ha voluto dedicare questa Giornata al piccolo siriano Aylan Kurdi, la cui immagine, riverso su una spiaggia dopo la morte in mare, è diventata un simbolo, e ha auspicato il gemellaggio tra Milano e Kobane “per lanciare un ponte di collaborazione concreta con la città in prima linea nella guerra all’Isis”.

“Potevamo organizzare un dibattito su quello che sta accadendo – ha detto Gadi Schonheit – ma abbiamo preferito parlare di identità, perché è da questa che parte la volontà di agire”. E’ infatti richiamandosi alla propria identità e al proprio vissuto che gli ebrei milanesi hanno cercato di creare un ponte con i profughi, con la distribuzione di pasti e aprendo gli spazi del Memoriale come rifugio notturno.
In rappresentanza della Regione ha rivolto il suo saluto Valentina Aprea, Assessore Istruzione, Formazione e Lavoro che ha ricordato Rav Toaff “avendo avuto il privilegio di conoscerlo” e la sua collaborazione con David Meghnagi “con cui abbiamo istituito il Master sulla Shoah”. “Le nostre culture – ha detto – hanno la responsabilità del dialogo oggi più che mai. Costruiremo ponti, per esempio con il protocollo siglato in Israele dal Governatore Maroni con il KKL, per scambi di studenti, esempio importante di collaborazione e dialogo”.

Poi è intervenuta la vicesindaco di Milano Francesca Balzani (che ha da poco sostituito Ada Lucia De Cesaris, grande amica della Comunità, presente anche in questa occasione in Sinagoga). “Milano è libera e aperta anche per il contributo della comunità ebraica. – ha detto Balzani – Ponte è ciò che permette di muoversi, non fermarsi sul ciglio. Senza movimento, dialogo e incontro si rischia di inaridirsi. L’Italia è un ponte verso il Mediterraneo e l’apertura necessaria è non solo quella dei luoghi ma della mente e dello spirito, la capacità di superare i confini. La ricchezza della cultura ebraica ci insegna a trasformare le diversità in patrimonio comune”.
E’ stata poi la volta della presidente del Bené Berith Europa Erika Van Gelderun, che si è detta “Onorata di essere a Milano. Come è iniziata la Giornata europea della Cultura ebraica? Da una piccola loggia del BB di Strasburgo. Perché abbiamo scelto quest’anno il tema ‘Ponti’?. Perché vengono costruiti per espandere le relazioni, avvicinarsi agli altri trasmettendo la propria cultura. Nel rispetto e nella conoscenza reciproca facendosi carico del compito educativo verso le nuove generazioni, perché il futuro sia migliore”.

Si è parlato quindi di ponti, passaggi, collegamenti con le altre religioni, con il valore aggiunto dell’esperienza, dato che la comunità ebraica di Milano ha moltissimi iscritti che vengono dal mondo islamico: Egitto, Libia, Siria, Persia, Libano, Turchia.

Rav Alfonso Arbib, Rabbino capo di Milano, ha tenuto una illuminante introduzione: “Il tema è problematico. È stato assunto un simbolo, ma i simboli sono problematici perché hanno molti significati. Il ponte è anche un luogo pericoloso; il ponte stretto è una metafora della vita. L’importante è non avere paura.
Il ponte unisce realtà diverse e non possiamo fare a meno dei rapporti con gli altri, che possono essere di vario tipo ma restano imprescindibili. Come rendere il rapporto positivo?
Attraverso alcuni pilastri. Il primo, dicono i maestri, è la Ghemilut Chasaddim, che significa ‘occuparsi del prossimo’, qualcosa di più della tzedakà (fare del bene al prossimo, giustizia); è anche tentare di capire di che cosa il prossimo ha bisogno, le sue aspettative, quello che lo rende felice; entrare insomma nei sentimenti delle persone. Le relazioni rischiano di essere disastrose se non capiamo l’altro. Costruire una immagine falsa porta al fallimento. Il secondo presupposto è che il ponte funziona se le due realtà esistono. Se il ponte invece si
basa sull’annullamento dell’altra parte il ponte non serve a nulla. Servono due identità forti per creare una vera relazione. Bisogna dunque capire e approfondire se stessi per conservare la forza della propria identità. Riuscire a capire la propria identità.
Dall’altra parte, sempre a proposito di ponti, in italiano c’è l’espressione ‘bruciare i ponti alle spalle’. Dopo l’uscita dall’Egitto il popolo ebraico percorre una strada lunghissima per tagliare i ponti con l’Egitto, con la schiavitù… Perché c’è anche una nostalgia dell’Egitto. La Torà insegna che si devono tagliare i ponti con la schiavitù e tutto ciò che l’Egitto rappresenta: che cosa non vogliamo e non siamo: dobbiamo sapere i nostri limiti, e chiarirci le idee”.
Entrando propriamente nel tema dei rapporti tra Ebraismo e Islam è intervenuto David Meghnagi, docente di Psicologia all’Università di Roma Tre e direttore del Master sulla Shoah:
“Il tema non è facile perché è estremamente delicato. I rapporti sono stati contrassegnati negli ultimi due secoli da un buco nero tra mondo ebraico e arabo islamico. Non c’è dialogo. E devo dire che la cesura, la difficoltà non viene dagli ebrei. Ma dobbiamo avere presenti le parole del salmo 90 ‘di fronte a te Signore 1000 anni sono un giorno’. I tempi cui ci invita il salmista sono lunghi e dobbiamo avere la capacità di tenere integra la nostra psiche per non perdere la capacità di sognare. I giovani tedeschi oggi camminano per le vie di Tel Aviv; chi lo avrebbe immaginato settanta anni fa? Dobbiamo essere vigili per mantenere viva la speranza del futuro. Quando ero piccolo ho sognato che tutti partivano dal mio paese e una nube ci proteggeva. Questo sogno mi ha accompagnato tutta la vita, avevo interiorizzato i
racconti di due pogrom avvenuti in Libia dopo la seconda guerra mondiale, due pogrom che non avevano nulla a che fare con il conflitto arabo-israeliano, Israele non esisteva ancora.
Dobbiamo trasformare l’esilio in esodo: significa caricare di significati positivi la nostra esistenza. Una volta ho avuto una specie di allucinazione, mi trovavo all’aeroporto di Roma e sul tabellone dei voli le destinazioni Tel Aviv e Tripoli per un attimo si sono confuse ai miei occhi; ho avuto la sensazione che ero sia a Roma sia a Tel Aviv e a Tripoli. Ho capito che io potevo essere ovunque. Il rapporto tra Islam e ebraismo si fonda su un mito, che sotto l’islam non c’era antisemitismo. E’ un falso, Maimonide stesso era un ‘nascosto’, un marrano. Ha scritto in arabo la sua Guida dei perplessi, solo dopo tradotta in ebraico. Eppure Maimonide è un ponte tra le tradizioni filosofiche del medioevo. Gli ebrei sono stati ‘i diversi’ in ogni società dove hanno vissuto. Hanno sperimentato che cosa significa essere considerati inferiori, con diritti limitati.

La Spagna moresca, spesso portata a simbolo di convivenza, è stata il frutto di una invasione araba, una civiltà in espansione verso la civiltà stanziale della Spagna e gli ebrei hanno vissuto a fasi e luoghi alterni in quell’epoca, qui tollerati, là cacciati, ogni città una storia a sé. Conserviamo una memoria positiva di quella fase perché è stata un’epoca di grande fertilità culturale. La mia ipotesi è che l’antisemitismo islamico negli ultimi duecento anni sia stato una conseguenza del colonialismo. In Libia, con il ritorno della dominazione Ottomana nell’800 si crea una situazione negativa per gli ebrei, perché gli Ottomani erano più tolleranti verso gli ebrei e questo li rendeva invisi alla popolazione locale.
Con la dominazione italiana poi, gli ebrei libici erano percepiti come ‘occidentali’ e questo li ha fatti odiare di più dagli islamici. Siamo stati visti come contigui ai colonizzatori, ma eravamo lì da millenni. Se non ci fosse stata la vittoria degli Alleati a El Alamein, tutti gli ebrei del Nord Africa sarebbero stati sterminati, dai nazisti in collaborazione con gli islamici. Anche l’Europa ha i suoi buchi neri, solo superando i nazionalismi si può andare avanti. Chi erano gli europei nel ‘600? Gli Stati nazionali si scannavano tra di loro. Gli unici europei erano gli ebrei… Trasnazionali. Anche in Jugoslavia, tra serbi, croati, bosniaci, sloveni gli ebrei erano gli unici jugoslavi e potevano impegnarsi come mediatori.
Il mondo islamico ha bisogno di una Nostra Aetate, ha bisogno di sviluppare una visione storica degli eventi. Anche il mondo arabo capirà che chi ama di più quelle terre è chi ne è stato cacciato, gli ebrei. Io ho un olfatto molto sviluppato. A Tel Aviv sentivo l’odore di alcune zone e riconoscevo i profumi, i semi, i fiori. Ero in grado di capire chi aveva abitato quei quartieri, da ciò che ebrei dal Marocco, dalla Libia, dalla Tunisia avevano portato insediandosi in Israele. L’esilio è dentro di noi. Io ho voluto conservare l’uso della lingua araba, come l’ebraico antico e moderno e l’aramaico. Le lingue vanno salvate. Gli ebrei conserveranno le lingue e così l’immagine del futuro, di una possibilità diversa di relazione, si salva. Vanno anche viste le difficoltà oggettive di oggi, ma senza cadere preda della disperazione”.
Gadi Shonheit presenta la presidente delle donne arabe italiane, Dounia Ettaib, che in un appassionato e applauditissimo intervento dice: “Come musulmana mi hanno fatto male le parole di David Meghnagi. Io sono marocchina e quella del mio Paese è una storia multiculturale. Ci sono tuareg, cristiani, ebrei, berberi, arabi, africani… Quando ero piccola, chiesi a mia nonna quale fosse la vera religione e mia nonna rispose ‘la religione giusta è quella ebraica’. ‘Ma allora perché non la seguiamo?’ ‘Perché l’ebraismo è fatto per il popolo di Dio. Siamo tutti diversi ma tutti umani’. Durante la seconda guerra mondiale il re del Marocco rispose alle pretese di Hitler che non aveva sudditi ebrei, ma solo marocchini. Oggi i marocchini rimpiangono gli ebrei, li chiamano “il sale del Marocco”. Pensando all’estremismo islamico, dico che i musulmani sono le prime vittime degli estremisti. Ma ad oggi nessun arabo si è alzato per dire ‘fermiamo il massacro’. Chi si è levato per difende i profughi marchiati alle frontiere sono stati gli ebrei. Quello che la storia ci ha insegnato, che gli ebrei ci insegnano, è il non dimenticare e riconoscere il dolore degli altri”.
Daniel Fishman, citando il suo recente libro “Il grande nascondimento”, ha raccontato la storia degli ebrei persiani di Mashad. “La comunità di Milano ha la ricchezza di gente di tutto il mondo e in particolare la comunità persiana di Mashad, città mausoleo in terra sciita, dove la popolazione ebraica subì, sotto pena di morte, la conversione forzata che diventò marranesimo, musulmani di giorni e ebrei di nascosto. Con una identità fortissima per 120 anni. Seguivano i precetti islamici e quelli ebraici, compivano il prescritto pellegrinaggio alla Mecca, passando poi per Gerusalemme. Nonostante le fughe e il dolore gli ebrei originari dei paesi arabi e musulmani non vogliono rinunciare alle proprie origini”.
Lo scrittore Miro Silvera, autore tra l’altro de “Il prigioniero di Aleppo”, dedicato alla sua città natale, racconta: “Eravamo originari della Spagna, da cristiani convertiti siamo passati in Portogallo come Silveira e alla cacciata successiva siamo scesi a Gibilterra, poi a Livorno nel 1590, “il paradiso degli ebrei” perché gli ebrei erano come gli altri, grazie alla creazione del porto franco da parte di Cosimo de Medici. Diversis gentibus una, si legge su una moneta coniata a Livorno. La Toscana era allora un’isola di luce per gli ebrei, per una politica intelligente che fece la fortuna di Livorno e della mia famiglia. Poi ad Aleppo. Sono un ponte vivente tra diversi mondi, come molti altri ebrei del resto. Ad Aleppo la mia famiglia risedette per due secoli, era una città straordinaria, un suk enorme, il più antico del mondo.
Ma la sinagoga, costruita dal mio bisnonno, è stata bruciata nel 1947”.

Suggestioni, mondi scomparsi e rimpianti. Restano fondamentali le parole di David Meghnagi “Salvare l’immagine del futuro, di una possibilità diversa di relazione”.