Vegani, vegetariani, onnivori, carnivori… quale scelta è più “casher”?

Ebraismo

di Redazione

Onnivori, carnivori, vegetariani, vegani. E ancora fruttariani, crudisti, macrobiotici. Quanti modi ci sono per nutrirsi? L’ebraismo ha fissato i limiti tra il lecito e il proibito, tra ciò che è casher/adatto e ciò che è asur/vietato. Ma a molti non basta. C’è compatibilità tra l’Halachà e il nutrirsi di animali e prodotti di origine animale, a certe condizioni; ma la cashrut può ignorare la violenza sugli animali e la loro sofferenza?

Ne hanno discusso, il 9 gennaio presso la Residenza Arzaga, in un dibattito organizzato da Kesher dal tema “Vegani contro carnivori: cosa è meglio per una dieta kasher?”, Mino Chamla, Ester Moscati e Paolo Pozzi.  Nella sua introduzione, rav Roberto Della Rocca ha spiegato come il tema sia molto sentito nell’ebraismo, sia un argomento di attualità che risale, secondo il pensiero ebraico, a tempi davvero lontani: prima del diluvio universale, l’umanità era vegetariana, e così sarà nell’Era messianica. Che cosa significa rispetto per gli animali, che cosa implica la compassione, la cura, l’utilizzo e il dominio? Cacciati dal paradiso terrestre, Adamo ed Eva furono vestiti con pelli di animale. Non ne mangiavano, quindi, ma se ne servivavo, li uccidevano. Ma in che modo e a quali condizioni? Il vegetarianesimo è propugnato da alcuni rabbini, come Rav Kook. Ma c’è anche chi si limita, nel consumo di carne, allo Shabbat e ai giorni festivi, come per sottolineare l’importanza delle ricorrenze con un cibo speciale.

Rav Della Rocca: «È un tema molto attuale e molto studiato dalla tradizione ebraica per due motivi. Si sa che l’umanità primitiva era vegetariana e l’uso della macellazione degli animali subentra solo dopo il diluvio per una sorta di “caduta etica” dell’umanità. Per questo anche secondo grandissimi rabbini, uno per tutti il grande Rav Kook che era vegetariano, è previsto che nei Tempi messianici tutta l’umanità tornerà non mangiare più carne, quindi ad essere vegetariana. Il Vegetarianesimo è una filosofia di vita e per questo i grandi maestri sostengono che la cashrut non è solo una dimensione alimentare, ma casher significa “adatto – buono” quindi anche una persona può essere più o meno casher. Non come diceva Paolo l’apostolo e poi il cristianesimo quando professava che “è importante ciò che esce dalla bocca e non cosa entra nella bocca”; per noi viceversa è importante, perché una persona è ciò che mangia. Secondo una teoria filosofica ebraica, noi possiamo diventare anche ciò che noi mangiamo. È quindi una discussione molto ebraica ma anche molto filosofica».

Ester Moscati, giornalista, ha iniziato raccontando un midrash: «Un uomo, un povero ebreo, è costretto a vendere la sua giovenca da tiro. La compra un pagano che la lega subito al giogo e all’aratro e la mette al lavoro sul suo campo. La fa lavorare ogni giorno, per tutta la settimana. Ma al Sabato, la giovenca si rifiuta di lavorare, si lascia cadere a terra e non si muove, neppure quando il pagano la picchia duramente. Allora l’uomo chiama l’ebreo e gli dice di venirsi a riprendere la sua giovenca, perché si rifiuta di lavorare. L’ebreo capisce immediatamente che cosa sta succedendo, va nel campo, si inginocchia accanto alla testa della giovenca e le sussurra all’orecchio che il nuovo padrone non è ebreo e che quindi lei deve lavorare anche di Shabbat. La giovenca si alza e inizia ad arare il campo. Ma il pagano è perplesso: «che magia è mai questa? Riprenditi la giovenca, dice, non posso mica chiamarti ogni giorno per spronare la tua bestia! Spiegami che cosa le hai detto!». L’ebreo allora gli spiega la mitzvà del riposo sabbatico, che non riguarda solo l’uomo ma anche “il bue, l’asino e ogni altra creatura che appartenga a un ebreo”.  Il pagano è molto colpito ed esclama: «Se un animale può riconoscere e seguire la volontà del Signore, come posso non farlo io che sono fatto a sua immagine e somiglianza?!». Così il pagano si converte all’ebraismo e diventa un Rabbi, conosciuto come Jochanan, figlio della giovenca, perché è stato questo animale ad avvicinarlo a Dio.

E poi c’è l’asina di Bilam, il mago/profeta che voleva maledire Israele per ordine di Balak, re di Moab. Ma la sua asina vide l’angelo del Signore che sbarrava la strada a Bilam e si fermò. Per tre volte lui la percosse per farle proseguire il cammino, ma il Signore le diede la parola, affinché Bilam si accorgesse dell’angelo del Signore, comprendesse il suo errore e rinunciasse ai suoi propositi. Un animale partecipa, quindi, di nuovo, al disegno di Dio.

E le rane? Sono citate in un racconto sul Baal Shem Tov che, secondo i suoi allievi, si recava tutte le mattine allo stagno per imparare il difficile canto di Lode al Signore che le rane intonavano. Il Baal Shem Tov, fondatore del Chassidismo, era anche shochet, e prima di uccidere un animale lo consolava – è detto – e piangeva con lui. Riteneva che uno shochet che non piange sull’uccisione di un animale non fosse un degno shochet.

Gli animali, secondo i midrashim ma non solo, partecipano del disegno di Dio e godono dell’amore e della pietà di HaSham, come dimostra la storia di Ninive, salvata, nonostante la perplessità di Jonà, perché vi risiede una grande quantità di bambini (coloro che non sanno riconoscere la destra dalla sinistra, gli innocenti) e di animali. Gli animali, come abbiamo visto nel midrash della giovenca (Pesiqta Rabbati 56/57), sono benedetti dal riposo sabbatico (Deuteronomio, 5, 12-14) ma non solo. Nel Deuteronomio (22, 10) si prescrive: “non lavorerai con un bue e un asino aggiogati insieme”, in considerazione della diversa forza dei due animali che renderebbe penoso il lavoro.

L’umanità era vegetariana, fino al diluvio. Usciti dall’arca, gli animali sono dati in pasto all’uomo. È come se Dio ammettesse che l’uomo non è quell’essere che aveva auspicato, che c’è stata una caduta morale e piuttosto che uccidersi tra loro, è meglio che uccidano gli animali per nutrirsene. Ma per il Signore è un’evidente delusione, un ripiego malaccetto. E così interviene il limite di ciò che è proibito, mentre permane il divieto di infliggere sofferenze inutili agli animali. Un animale che ha sofferto non è più casher.

Ma che cosa si intende per sofferenza? E che cosa è “inutile”? Tza’ar ba’alei Chayym, la sofferenza degli animali: evitarla è un comandamento della Torà. “Me lo hanno insegnato alla scuola ebraica: se proprio vogliamo mangiare gli animali, dobbiamo farlo con umiltà e rispetto, non infliggendo sofferenze né durante l’allevamento né con la macellazione. È una concezione che mi rende orgoglioso di essere ebreo”. Così scriveva ormai quasi 10 anni fa Jonathan Safran Foer, scrittore ebreo americano, nel suo libro-manifesto-inchiesta Eating Animals, pubblicato in Italia da Guanda con il titolo “Se niente importa”. È un’opera documentatissima che ha scoperchiato il vaso di Pandora degli allevamenti intensivi, dello sfruttamento degli animali trasformati in prodotti industriali, in un inferno dantesco di sofferenza e privazione esistenziale.

In una bistecca nel nostro piatto, che cosa c’è? Carne di pollo, manzo, tacchino? Molto di più: c’è malattia, contaminazione dell’ambiente, deforestazione, inquinamento, Effetto serra e il 100% di sofferenza. La carne degli allevamenti intensivi oggi è tutto questo. Come può essere concepibile che vengano considerate casher uova marcate 3, cioè provenienti da allevamenti in gabbia, dove le galline ovaiole passano tutta la loro esistenza su l’equivalente spaziale di un foglio A4?

Gli allevamenti intensivi sono la causa del 51% dell’Effetto serra e quindi del Riscaldamento Globale. Con l’allevamento intensivo stiamo distruggendo il nostro pianeta. Spesso si pensa che il fenomeno sia irreversibile, perché non è facile dire alla gente che cosa deve fare, che cosa deve o non deve mangiare. Ma l’ebraismo lo fa da 5000 anni! Per questo penso che l’ebraismo possa fare molto per questo problema. Può essere un faro di civiltà, rispetto e intelligenza, non solo verso gli animali ma proprio per la sopravvivenza del genere umano sulla terra, per rispettare il precetto di custodirla, di averne cura. Se l’ebraismo mondiale dicesse ad alta voce che la carne degli allevamenti intensivi non è casher, non si può mangiare, sarebbe un esempio meraviglioso per tutti».

Prende la parola il veterinario Paolo Pozzi, esperto di “benessere animale”, vissuto molti anni in Israele e che collabora con il Ministero israeliano dell’Agricoltura.
«Sono diventato veterinario nel 1988 qui a Milano poi per 25 anni ho lavorato in Israele al Ministero dell’Agricoltura e servizi veterinari e uno dei miei compiti era di essere ispettore di benessere animale. Il problema che mi si pone immediatamente è che tutto quello che ha detto Ester è assolutamente vero. Assolutamente vero. Nel senso che come ispettore del benessere animale ne ho viste di cose… anche cose che non volete sapere.

C’è comunque una pallida speranza, nel senso quando ho finito gli studi la parola “benessere animale” proprio non esisteva nel dizionario; oggi almeno nei paesi occidentali esiste una professione nell’ambito della Veterinaria di colui che si occupa di “benessere animale”, esiste un’area funzionale in questo campo e sia pure con i freni tirati, e con l’industria che tira da tutt’altra parte, comunque il problema di una vita, che possa essere migliore di quello che è, e di una rapida morte per gli animali finalmente sta venendo a galla. C’è ancora molto da fare. Anche su altre considerazioni sono d’accordo con Ester: per produrre un chilo di carne servono tre chili di granaglie. Per produrre un suino da 100 chili servono 300 chili di granaglie. Pensate a che cosa potrebbe fare una famiglia africana con 300 chili di granaglie. Comunque il titolo della mia relazione è Vegani e carnivori, non Vegani contro carnivori, e ho sviluppato l’argomento in un certo modo perché intenderei lasciare aperte le possibilità.

Io penso che, per ogni ebreo, in linea di massima per ogni aspetto della vita il riferimento debba essere la Torà. Anche il pensiero personale sull’argomento dovrebbe rapportarsi alla Torà e a quello che i Maestri ci hanno insegnato.

Esiste un rapporto tra animali e ebraismo. L’uso degli animali è permesso ma è molto regolato. Lo sfruttamento e gli abusi sono proibiti a partire dall’uso di parti di un animale vivo per cibarsene. A partire dall’obbligo di nutrire gli animali prima di noi stessi. Ho inserito alcune Halakhot nuove che oggi vengono implementate in Israele e sono supportate da pisqé Halachà da parte di grandi rabbini come Rabbi Ariel che è anche direttore di pubblicazioni e di un sito. C’è verso gli animali l’obbligo di foraggiare e assistere, il divieto di abbandonare, divieto di impedire all’animale di mangiare mentre lavora, l’obbligo di riposo di Shabbat e Moadìm, obbligo di aiutare un animale sovraccarico, proibizione di sovraccaricarlo, proibizione di castrarlo per un maggiore ingrasso, ma solo per il controllo delle popolazioni selvatiche per beneficio collettivo, per impedire la diffusione della rabbia che in Israele è endemica, ma con mille limiti e discussioni. C’è poi la proibizione di macellare animali molto giovani, proibizione di macellare lo stesso giorno genitori e figli, proibizione di raccogliere uova e pulcini e di sottrarre i piccoli alla madre, proibizione a macellare animali zoppi, feriti, malati, gettati; proibizione a battere o ferire gli animali. È il problema del fois gras, che viene ricavato da oche inchiodate al suolo e alimentate a forza. Ogni tipo di mutilazione sull’animale rende l’animale impuro, non casher.

Relativamente al dolore o alle sofferenze degli animali, esistono sostanzialmente due mitzvot: l’ebraismo prescrive di salvare gli animali da una situazione dolorosa o pericolosa e di minimizzarne la sofferenza e gli eventi traumatici, che secondo lo Shulchan Aruch è definita come una mitzvà derivante direttamente dalla Torà; la seconda è quella di astenersi da ogni azione dolorosa gratuita e intenzionalmente traumatiche che è una mitzvà “me-de-Rabbanan”, di derivazione rabbinica. Ci sono due tipi quindi di interazione rispetto al dolore.

La Torà comunque non vieta l’utilizzo degli animali, ma ci ricorda anche qual è il nostro posto rispetto agli animali. Gli animali furono creati prima dell’uomo, il quinto e il sesto giorno della Creazione. Il Midrash di Sanhedrìn dice che l’uomo fu creato prima di Shabbat, perché nel caso che diventasse arrogante, gli si possa sempre ricordare che anche un moscerino è stato creato prima di lui. Quindi essere l’apice della creazione secondo i Maestri non vuol dire essere “prima di tutto”. Ricordati qual è il tuo posto.

Le mitzvòt relative agli animali, però, non hanno come fine la protezione degli animali, perché gli animali, come tutta la Creazione, sono al servizio dell’uomo; ma l’elevazione spirituale dell’uomo rispetto alla natura e per instillare nell’uomo un senso di misericordia nei confronti della natura, del creato e delle creature. Per impregnare l’animo umano di qualcosa di divino, cioè la misericordia di Dio relativamente al creato e alle creature. La natura esiste e ha le sue leggi. Il compito dell’ebreo è di essere misericordioso nei confronti della natura, malgrado le sue leggi a volte spietate. Questo è lo scopo delle mitzvot nei confronti degli animali e della natura.

C’è un midrash che riguarda Rabbì Yehudà HaNassì, il padre della Halachà. Un vitello fuggì dal macello e si nascose sotto il mantello del Rabbì, che lo scacciò dicendo: Vai al macello, sei stato creato per questo! La sua mancanza di misericordia fu punita con sofferenze terrificanti per un lungo periodo, finché vide la sua domestica che scacciava una topolina con i suoi piccoli dalla casa con la scopa. Rabbì Yehudà HaNassì la fermò e le disse di non farlo, “perché la Sua misericordia è su tutte le sue opere”, e solo in quel momento le sue sofferenze cessarono. Quando arrivò a riconoscere che doveva essere misericordioso perché Dio lo è, allora capì qual era il suo compito, il suo scopo come ebreo e guarì. Anche se l’animale può essere macellato per nutrirsene, non va maltrattato e va accompagnato con misericordia. Ester ha citato il Baal Shem Tov. Era shochet. Prima della Shechità è d’uso bagnare il coltello, il Baal Shem Tov, raccontano i suoi discepoli, bagnava il coltello con le sue lacrime. Perché era consapevole che andava a togliere la vita.

Ma allora il messaggio qual è? La creazione va gestita secondo i criteri di responsabilità e misericordia. Quando esisteva il Beth Hamikdash venivano portati dei korbanòt (sacrifici) e parte dei korbanòt venivano consumati dall’offerente insieme o senza i sacerdoti. L’offerta era accompagnata con un senso di havòd e partecipazione interiore della persona. Quell’animale era lì per espiare qualcosa che l’uomo aveva fatto. Un sentimento di misericordia legava quindi l’uomo e la sua famiglia all’animale che in qualche modo si sostituiva ad esso.

Al momento della creazione all’uomo viene dato semplicemente il controllo degli animali, il dominio. Viene permesso il loro utilizzo e l’uccisione per i sacrifici, come faceva Abel, ma non venivano mangiati. Non dimentichiamo che il vestito che Dio dà ad Adamo e Eva al momento della Cacciata era fatto di pelle. Quindi, fino al tempo di Noè, l’umanità usava gli animali ma erano vegetariani.

Come vede l’ebraismo il vegetarianesimo? Rabbi Abraham Isaac Hakohen Kook (1865-1935) fu fra i primi a discutere di questo. Scrisse un’opera intitolata “Vegetarianesimo e pace”. Scrive esplicitamente “Controllare non va inteso come il controllo di un dittatore che si incrudelisce sul suo popolo, sui suoi servi, solo per soddisfare i suoi bisogni e la durezza del suo cuore. Guai a una simile legge ripugnante che portasse il sigillo eterno di Colui che è buono in tutto e misericordioso in tutte le sue opere”. Quindi Rav Kook riporta esattamente la frase di Rabbì Yehudà HaNassì, esattamente lo stesso concetto. Elabora e interpreta i vegetarianesimo attraverso l’elevato profilo morale del primo uomo che gli permise di comprendere che non avrebbe potuto utilizzare altri esseri viventi come alimento.

Concetto che è completamente diverso da pensare di non aver diritto ad alimentarsene in quanto noi non siamo superiori agli animali: un conto è ragionare nel senso che gli animali sono esseri viventi come noi, un altro è pensare “io non mangio gli animali perché io non sono superiore agli animali”. Che siano uguali a noi. L’uomo è superiore agli animali anche se questi sono esseri viventi. Come dice il Salmo 106, non dobbiamo abbassare il nostro havòd di esseri umani allo stesso livello del bue che mangia da una mangiatoia. L’uomo non deve snaturare la propria natura umana per il fatto di non voler mangiare gli animali. Dal punto di vista ebraico questo concetto deve essere estremamente chiaro.

Prima del diluvio, Abel pensò che si potessero sacrificare gli animali. Caino pensò che gli animali fossero sullo stesso livello dell’uomo e portò vegetali in sacrificio. Sbagliarono entrambi. Lo sbaglio portò alla gelosia, che portò all’omicidio.

Dopo il diluvio c’è il permesso esplicito di cibarsi di carne, ma non del sangue. E c’è il divieto di mangiare parte di un animale vivo perché, commenta Aharon HaLevì di Barcellona, “Affinché la nostra anima non si abitui alla crudeltà. Non c’è nulla di più crudele”. Siamo nel 1250 circa, quando l’umanità si scannava tra crociate e guerre. E l’ebraismo si preoccupava della sofferenza degli animali. Anche questo è significativo. Con 800 anni di anticipo, l’ebraismo si preoccupava del “benessere animale”.

La Torà parla della Shechità come di un atto misericordioso per uccidere gli animali, e poi la Torà Shebealpé, La Torà orale, sviluppa nel dettaglio questo precetto. L’astensione non è richiesta della Torà, ma l’atto va santificato ed elevato, per celebrare ed elevare. Alcuni Tzaddikim mangiavano carne solo di Shabbat e Moed. La nascita nazionale di Am Israel, Pesach, è accompagnata da un pranzo a base di carne. La Torà propone una sintesi tra la materia e lo spirito, per dare consapevolezza e significato alla vita umana.

In conclusione: vegetarianesimo, forse no, se lo facciamo perché pensiamo che l’uomo e gli animali siano allo stesso livello; forse sì se basato sul riconoscimento del ruolo dell’uomo nel creato. Carnivorismo? Con la consapevolezza dell’utilizzo della creazione per le nostre necessità. Ma senza spreco e non per distruzione. Consumo consapevole. Nei tempi messianici, lupo e agnello dimoreranno insieme, e un ragazzo li guiderà. I maestri commentano: anche ai tempi del Messia, anche se non mangeremo più carne, l’uomo conserverà la sua posizione nel Creato».

 

L’ultima parola a Mino Chamla, docente di filosofia e vegetariano “spontaneo”:

«È vero che il fanciullo li guiderà, ma mi piace intendere quella guida come noi ebrei intendiamo il ruolo di popolo eletto. Tra l’altro uno di quei ruoli che da sempre agita e suscita l’antigiudaismo. E cioè non “eletti” nel senso di essere privilegiati e i padroni del mondo, ma di essere il popolo sacerdotale. Quindi anche verso gli animali, l’umanità va considerata il popolo sacerdotale del creato rispetto a tutte le altre creature; non padrone, non superiore. Io non nego che nella tradizione ebraica sia affermato il principio che l’uomo è superiore all’animale ma è proprio questo concetto di superiorità che mi è inaccettabile. Inaccettabile in qualunque senso possibile. Questo è il problema: che cosa facciamo di questa presunta superiorità, di questo ruolo che abbiamo? Una nota prima di andare al cuore di quello che vuole essere il mio discorso: biografica ed esistenziale. Mi capita di essere stato un vegetariano spontaneo, molto prima che andasse di moda. Sin da bambino, a cinque anni, ho avuto un orrore assoluto nel nutrirmi di animali, che poi è maturato in una scelta che ho definito a 19 anni, vegetariano che mangiava latte e derivati, uova di gallina, non pesce, cosa che molti cosiddetti vegetariani fanno. Era una sorte di orrore della morte. Da piccolo già avevo la percezione netta che nutrirmi di animali significava mangiare un cadavere e in qualche modo, per me, mi sembrava un atto di cannibalismo. Dopo di che ho fatto la mia vita, soprattutto ho avuto sempre due passioni, ebraismo e filosofia. E così ho cominciato a cercare risposte. Ma siccome ho un’irresistibile tendenza a non dogmatizzare, a non cercare riposte definitive ma ad andare sempre più in là, ho provato “ad andare più in là” partendo da una considerazione: mangiare o utilizzare gli animali o qualunque parte del creato è un atto di violenza, di sopravvivenza dell’individuo rispetto alle altre cose. Altre cose, non individui, perché dopo la questione umana e la questione animale, voglio aprire anche la questione vegetale.

Ora, da un lato violenza comunque, mors tua vita mea, dall’altro lato tutto è “animato”; sia l’ebraismo sia la filosofia, almeno quella che piace a me, sostiene che tutto è vivo, tutto è animato. A livelli diversi. È quella che viene chiamata la concezione ilozoistica del creato.

Anche nell’ebraismo questa visione serpeggia ampiamente e non solo nella Qabbalà.

Sono convinto che spesso i percorsi della filosofia, quella più ardita e aperta, coincidano con l’ebraismo. Le risposte sono molto simili, anche se ci si arriva da ragionamenti diversi. Intanto aggiungo che, unendo i discorsi di Ester e di Paolo sulla questione degli allevamenti intensivi, questa potrebbe essere una ragione in più da parte dell’ebraismo per discutere del consumo di carne, come sta accadendo. Paolo ci ha detto che ci sono speranze, possibilità. Nello stesso tempo penso che sia un ottimo argomento per l’ebraismo l’emergenza denunciata da Safran Foer. O partiamo dal presupposto, stile Trump, di negare l’evidenza e chiamarla eco-terrorismo, oppure basterebbe quello che dice Safran Foer e allora, anche ebraicamente, già solo su questa base, vale la pena discutere se propendere per il vegetarianesimo, anche senza imporre nulla a nessuno. Una cosa che mi ha sempre accompagnato è l’assenza di fanatismo, non pretendo di dire a nessuno che cosa debba fare o adeguarsi alle mie scelte. Non sono un fondamentalista, come oggi ce n’è ragionando in termini di rigidità assoluta. Che è diversa da un pensiero radicale, e per me l’ebraismo è un pensiero radicale sulla condizione umana. Aiuta a capire il movimento, qual è il problema, dove siamo.

Due piste possibili. L’episodio di Yehudà HaNassì e del vitello. Io interpreto quel racconto non soltanto con la mancanza di compassione, ma come una affermazione pesantissima di Rabbì Yehudà; tu sei stato creato per essere mangiato. Mentre quel vitellino, nei piani di Dio, non è stato creato “solo” per esser mangiato. Con rispetto per il Rabbino, padre dell’Halachà, in quel momento HaNassì non vorrei avesse fatto un errore simile a quello degli amici di Giobbe quando gli dicono che se il Signore lo fa soffrire così, si deve essere macchiato di gravi colpe. Mentre poi si capisce che i piani di Dio nessuno li afferra veramente. In quel momento dire al povero vitellino che cercava conforto, “Va’ che sei nato per essere macellato”, è non solo una mancanza di misericordia ma è anche un momento di cecità intellettuale oltre che morale. Da questo punto di vista, qual è il problema? Anche filosoficamente è diventato molto rilevante. Sapete che ormai da anni si sviluppano molte correnti di etica animale, discorsi sui rapporti con gli animali, sui loro diritti e la loro sofferenza. Un filosofo, Roger Scruton, che è la bestia nera dei filosofi animalisti, propone un nuovo “specismo”, che è l’equivalente del razzismo nel mondo animale. Cioè dice che noi siamo superiori e possiamo disporre degli animali a nostro piacimento, come nella dottrina cartesiana dell’animale-macchina.

Scruton dice che gli animali non hanno diritti perché ai nostri occhi non hanno doveri. Io capovolgerei questo principio, dicendo che l’animale è completamente diverso dall’uomo, e proprio per questo non ne puoi disporre, perché è proprio nella sua diversità che vale. Questa è una prospettiva, in qualche modo recuperare il senso di questi “alieni” che vivono con noi sulla Terra. Alieni molto “prossimi”. Cani e gatti sono ormai, pur con tutti gli eccessi che vanno giustamente evitati, davvero molto “prossimi”, per chi ne condivide la vita.

Però, seguendo questa prospettiva dell’episodio di HaNassì, l’animale va compreso come “altro”. Un’altra strada è quella dell’umanità popolo eletto del creato, cioè la questione è sempre e soltanto una questione umana. Il problema è che l’animale è come una sponda per cui l’uomo possa progredire moralmente: non dobbiamo sentirci uguali agli animali, perché potremmo correre il rischio di comportarci come “apparentemente” si comportano loro. Un “animalista umanista” inglese di inizio secolo, pre-labourista, filantropo, Henry Stephens Salt, vegetariano dice, nel 1914: “Gli onnivori ci dicono ‘perché fate tante storie, forse che gli animali non mangiano altri animali?’ Perché siamo uomini. Questo è il problema: noi ci poniamo il problema”. È l’uomo che si pone il problema di fare violenza al creato. In una prospettiva antropocentrica ma comunque nobile, si può dire: e chi se non noi? È troppo facile dire che il gatto gioca con il topo… Sono prospettive possibili, che tendono a fondersi nella prospettiva messianica. La prospettiva messianica dice che siamo diversi e insieme uguali per valore, ma non tutti nello stesso piano; Spinoza, fuori da una prospettiva ebraica e per molti ancora “maledetto”, diceva “ogni essere è perfetto nel suo essere”. Anche dire che cos’è la superiorità di un animale o di un uomo, semplicemente non ha senso. Ha senso solo nella prospettiva umana dalla quale non riusciamo ad uscire. È una idiozia rapportarsi a un animale come ad un “fratello uguale” perché si perde il senso stesso del rapporto. Rav Kook, tradotto di recente in italiano, dice esplicitamente: la prospettiva messianica è la tensione etica dell’ebraismo e dell’umanità, verso il vegetarianesimo.

E le piante: nascono per prime, nella Creazione, e sono più forti degli uomini e degli animali. Non subiscono le conseguenze del diluvio, come dimostra la colomba che torna a Noè con il ramoscello d’ulivo. Sono radicate, non sono fuori dalla terra, sono gli unici veri “produttori” del creato. Costituiscono la grande rete del creato. C’è uno scienziato, un neurobiologo, Stefano Mancuso, che ha scritto molto sulle piante, sulla loro intelligenza e sensibilità. Hanno una resilienza maggiore e probabilmente saranno quelle che salveranno la Terra.

Il qualche modo si torna a capire perché gli animali hanno un ruolo così forte: su questo piano, si giocano le leggi di Noè, il fare giustizia: la delusione di Dio dopo il diluvio è l’inizio della vera Storia e la condizione umana si gioca tra quel momento lì, dalla concessione dell’uso della carne come cibo, al vegetarianesimo dell’era messianica. L’ebraismo stesso, oltre a tutto il pensiero umano, è rivolto a quel momento finale, verso cui dobbiamo muoverci anche se Dio concede la libertà su come fare questo percorso».