Vai e impara: come lo studio ha cambiato il destino del popolo ebraico

di Fiona Diwan

la Schule
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Provate a immaginare il mondo ebraico nel Basso Medioevo. Visualizzate un mappamondo che indichi con pallini rossi le località delle comunità ebraiche, nell’anno di grazia 1170 dell’EV: coperto di rosso, vedrete un territorio vastissimo, che va dall’Inghilterra alla penisola iberica fino all’India e alla Cina. La visione sarebbe di un’immensa diaspora ebraica al suo apogeo, che coincide con l’età dell’oro della storia giudaica all’apice della propria espansione demografica, economica e culturale.

Ma perché a un certo punto della loro storia gli ebrei migrarono ovunque, abbandonando le terre mediorientali dove vivevano? Perché proprio in quel certo momento? E perché, da popolo di contadini delle campagne mesopotamiche, divennero mercanti, giuristi, banchieri e artigiani urbanizzati in tutto il mondo conosciuto (un trend che prosegue fino a oggi), raggiungendo un periodo di splendore tra il VII secolo e il XIII secolo dell’EV? E in definitiva: quando e perché gli ebrei sono diventati il popolo che sono? Domande apparentemente annose ed eterne, a cui un saggio -che non smette di far discutere-, cerca di dare una risposta nuova e originale: si tratta de I pochi eletti. Il ruolo dell’istruzione nella storia degli ebrei, 70-1492, di Maristella Botticini e Zvi Eckstein, Egea editore, volume che si è aggiudicato il National Jewish Book Award assegnato dal prestigioso Jewish Book Council americano, ed è stato pubblicato dalla Princeton University Press e ora tradotto anche in ebraico e uscito dalla Tel Aviv University Press. (Proprio su quest’opera e sulle sue tesi, la Comunità ebraica organizza un dibattito il prossimo 9 aprile, alle 10.30 del mattino, nell’Aula Magna Benatoff della Scuola Ebraica, con l’autrice Maristella Botticini, Rav Alfonso Arbib, Rony Hamaui, Mino Chamla, Guido Osimo, conduce Fiona Diwan).

Usando la lente della teoria economica e della demografia, gli autori si chiedono perché la popolazione ebraica tra il 70 e il VII secolo dopo l’EV, crolla vertiginosamente, passando da 5 milioni a un milione e 200 mila, quando cioè l’imperatore Tito rase al suolo il Secondo Tempio e gli ebrei si stabilirono per il 75 per cento tra Persia e Mesopotamia. E perché cambi totalmente la struttura occupazionale del popolo ebraico.

«È tra l’VIII e il IX secolo dell’EV che avviene una vera mutazione: gli ebrei divengono da contadini analfabeti a mercanti alfabetizzati. Una trasformazione radicale, resa possibile dall’istituzione di una norma che con il tempo, in sei secoli, si rivelerà rivoluzionaria: la lettura della Torà in sinagoga e l’obbligo dato ai padri di provvedere a insegnare a leggere la Torà ai propri figli, a partire dall’età di sei anni, ordinanza data dal sommo sacerdote Joshua ben Gamla, istituita nel 65 dopo EV, e che prese avvio proprio per sostituire la centralità del Tempio e dei sacrifici. E così, nel primo secolo dell’EV, quello ebraico è diventato il primo popolo ad istituire la scuola dell’obbligo», spiega Maristella Botticini, una dei due autori del ponderoso saggio costato 12 anni di lavoro, una mole sterminata di fonti consultate e messe a confronto, un andirivieni per il mondo per incontrare esperti di storia ebraica. E così, se per un millennio le due pietre angolari dell’ebraismo sono la Torà e il Beit haMigdash di Gerusalemme, dopo la distruzione del Secondo Tempio la lettura e lo studio si sostituiscono ai sacrifici e ai pellegrinaggi. Il Tempio diventa interiore e si sostanzia di studio, diventa trasportabile in una valigia con dentro libri e rotoli sacri, si trasforma in humus che feconda il lavoro, che innerva gli studi secolari e profani, consente la possibilità di cambiare vita e luoghi. Studio ed educazione, quindi. Ed individui in grado di far di conto, imparare svariate lingue, rendere vitali i contatti con altri correligionari e con un network che parla innumerevoli idiomi ma che ha in comune l’ebraico.

«Molti storici, tra cui Cecil Roth, spiegano il cambiamento della struttura occupazionale del mondo ebraico con le restrizioni subite e le leggi che vietavano il possesso della terra, insomma con cause esogene non endogene. È invece vero il contrario. Abbiamo scoperto che non era esattamente così e che invece, per lungo tempo, gli ebrei possedettero la terra anche nella diaspora europea medievale. L’unico impiego che fu vietato agli ebrei negli imperi romano, bizantino e persiano, nell’impero musulmano sassanide, abbaside e fatimide, fu quello nell’amministrazione statale, di funzionari del governo. Eppure il vero mutamento avviene proprio in quest’ultimo periodo, nel VII secolo: ritroviamo gli ebrei nel grande impero musulmano -con il suo impulso ai commerci e agli scambi, la nascita di megalopoli come Bagdad (un milione di abitanti)-, che da agricoltori sono diventati mercanti, aprono uffici a Costantinopoli, a Bassora, al Cairo, Bagdad, Napoli, Aden, in India e in Nord Europa…, protagonisti di un mondo globalizzato ante-litteram. E questo pur essendo diminuiti di tre quarti rispetto a 5 secoli prima».

Ma torniamo alla madre di tutte le domande. Perché gli ebrei scelsero di investire sul capitale umano invece che sul capitale fisso (terra)? Perché lasciarono l’agricoltura per diventare medici, banchieri, artigiani, giuristi…? Fu la religione a determinare questo esito socio-economico? Le persecuzioni? «La verità è che c’è un mistero storico: dopo il 70 dell’EV non si produssero deportazioni di massa, certo ci furono epidemie e carestie ed eccidi, ma non tali da giustificare la caduta verticale della popolazione ebraica da 5 milioni a un milione e mezzo», dice Botticini, che insegna Storia Economica in Bocconi (Zvi Ekstein è docente invece di Economia del lavoro). Davanti a questa clamorosa evidenza demografica, la risposta di Botticini ed Ekstein sta nel fatto che moltissimi ebrei abbandonarono la religione ebraica e si convertirono ad altro, specie al cristianesimo, perché far studiare i figli era troppo costoso e inutile ai fini del lavoro dei campi e agricolo, oneroso e impegnativo, senza un immediato ritorno. Fu così che in seguito all’obbligo di far studiare i figli a partire dai 6 anni, molti non se la sentirono; e non riuscendo a reggere lo stigma sociale con cui vennero sanzionati da chi aveva fatto proprio il precetto dell’istruzione obbligatoria, abbandonarono la Legge di Mosè.

Col declino dell’impero musulmano e l’invasione dei mongoli si produce un nuovo crollo, la fine di un mondo dinamico e prospero: lo shock mongolo riporta l’orologio della storia indietro di 5 secoli, si torna a un’economia di sussistenza, alla pastorizia e alla morte delle città. Ed è così che gli ebrei si spostano nel nord Europa e nella Spagna degli ultimi califfati, prima della Reconquista dei Re cattolici. Fino alla cacciata, nel 1492.

UN VIVACE DIBATTITO

Ma ora veniamo al dibattito storico. Con premesse del genere, come stupirsi che questo saggio non susciti polemiche? In un recente incontro-dibattito avvenuto a Palazzo Clerici su Come affrontare la sfida dell’educazione nel XXI secolo?, organizzato da Comunità ebraica, Associazione Italia-Israele di Milano ed Editore Egea-Università Bocconi Editore, nella sede dell’Ispi, si sono confrontati l’autrice Maristella Botticini, docente all’Università Bocconi, Elisa Bianchi, docente di Geografia della Popolazione all’Università Statale, lo storico David Bidussa, Rony Hamaui, docente di Economia monetaria all’Università Cattolica e David Meghnagi, professore di Psicologia clinica e direttore del Master in Didattica della Shoah dell’Università di Roma Tre (coordinava Piero Ostellino). Studioso da sempre interessato al ruolo della religione come motore dello sviluppo economico, Hamaui sottolinea il modello educativo della Torà «un modello decentrato, aperto, competitivo; perché nello studio e nell’interpretazione del testo sacro la regola è vinca il migliore, il più acuto, sagace e erudito», spiega Hamaui. Per David Bidussa invece, il saggio di Botticini ed Ekstein non tiene sufficientemente conto della geografia dei luoghi di produzione -economici e del sapere-. Per Bidussa, in duemila anni di storia ebraica, questi luoghi sono sei: Alessandria d’Egitto, la Spagna, Strasburgo e Rashi, la Polonia e un pezzo di Germania, gli Stati Uniti, Israele. «Questo saggio mi distrugge questa geografia, tanto più che gioca tutto il proprio impianto su un concetto di lunga durata», afferma Bidussa.

Elisa Bianchi invece ha spiegato come «in Europa l’alfabetizzazione risale al Settecento in Prussia, a inizi Ottocento in Inghilterra e a fine Ottocento per Italia e Francia, e di fatto nessuno poteva competere con duemila anni di alfabetizzazione ebraica». Con un intervento fortemente critico e polemico, David Meghnagi ha infine tirato in ballo un vecchio arnese della storia del sionismo, Abraham Leon, per esprimere l’idea che il volume proponga tesi poco originali o che addirittura abbia plagiato l’irrinunciabile Leon senza ahimè citarlo, alludendo, in particolare, al suo concetto di popolo-classe, tipico all’approccio marxista di Leon. Con tono inutilmente aggressivo, Meghnagi ha voluto fare di un libro a tesi (e I pochi eletti è un libro a tesi), un’opera ideologica, arrivando a sottendere che l’opera avrebbe potuto porgere il fianco a vecchie tesi antiebraiche. Alla berlina anche l’approccio micro-economico, secondo Meghnagi banalizzante (a questo punto, pare misterioso il perché mai Meghnagi abbia accettato di presentare un libro solo per stroncarlo, potendo invece declinare educatamente, come si fa in questi casi). Tutte argomentazioni respinte in modo serafico e distaccato, da Maristella Botticini.

Un confronto sull’opera che resta vivace e aperto, come spesso accade ai libri a tesi, ovvero a quelle opere che pur nell’analisi approfondita, hanno come obiettivo principale quello di ribaltare delle idees recues. E che quindi, proprio per questo, hanno bisogno di una dose supplementare di assertività.

Per ora, restiamo in attesa del secondo volume, quello che analizzerà la storia ebraica in chiave demografico-economica dal 1492 ai giorni nostri. Per disegnare quella geografia delle mappe ebraiche (concetto caro a Bidussa), dentro cui tutti noi, oggi ci muoviamo.