Adagio, pianissimo e a piccoli passi

Ebraismo

di Vittorio Robiati Bendaud

È uno dei più brillanti storici italiani del Cristianesimo, specialista del Concilio Vaticano II, docente all’università di Modena-Reggio Emilia, una cattedra Unesco all’università di Bologna sul pluralismo religioso nonché direttore della prestigiosa Fondazione Scienze Religiose Giovanni XXIII a Bologna. Nell’ampio panorama contemporaneo degli storici della Chiesa, Alberto Melloni, 52 anni, è certamente dotato di una lucidità fuori dal comune e di un approccio al dialogo interreligioso  fuori dagli schemi, nonché provvisto di un ragguardevole tratto di naturale simpatia. Con questa intervista a Melloni, prende il via sul Bollettino, un trittico di approfondimenti dedicati al dialogo ebraico-cristiano.

Professor Melloni, come nascono i tre incontri tra lei e lo studioso Haim Baharier al Teatro Franco Parenti per commentare a due voci, ebraica e cristiana, il Decalogo?

Personalmente mi premeva si cogliesse l’asimmetria costitutiva del dialogo tra ebrei e cristiani. Il cristianesimo non può pensarsi se non attraverso l’ebraismo e in relazione ad esso; la fede ebraica, al contrario, sussiste in sé, prescindendo dal cristianesimo. Parimenti mi stava a cuore che i nostri uditori potessero ascoltare la voce di un ebraismo vivente, non museale. Da ultimo, ritengo proficua l’idea di affiancare all’inesausta tradizione interpretativa ebraica, le due modalità esegetiche dei medesimi testi che il cristianesimo veicola oggi con sé: la lettura patristica-tradizionale e quella derivante dall’esegesi storico-critica. L’esegesi storico critica, serrata e puntuale, seppur diversa dai commenti rabbinici, ha in comune con questi l’attenzione scrupolosa per ogni singola parola del testo.

Come vede i rapporti tra mondo ebraico e cristiano?

Di buono ahimè, non si vede molto. In generale, nelle relazioni ecumeniche tra le Chiese Cristiane si è imposto un certo uso della cortesia reciproca. Si tratta spesso di una cortesia formale, d’occasione. Nella sostanza, però, le grandi questioni restano sullo sfondo. In particolare, sul tema fondamentale dell’Alleanza eterna tra Dio e il popolo ebraico e, conseguentemente, sul tema riguardante l’identità cristiana e il derivante rapporto tra le Chiese e Israele, non ci si misura davvero. Oltre a ciò va considerato il problema dell’antisemitismo in Europa e in Italia. Antisemitismo di tre generi: autoctono, ovvero il classico antisemitismo europeo; immigrato, quello importato dai migranti e da alcuni “nuovi italiani”, come, per esempio, i cristiani mediorientali, gli emigrati provenienti da alcuni Paesi dell’Est Europa (per lo più di confessione cristiana ortodossa) e dal mondo islamico; ed infine politico, legato allo Stato di Israele, alle sue politiche interne ed estere, alla sua stessa esistenza. Nel combattere queste forme  di antisemitismo le Chiese Cristiane dovrebbero fare molto di più e di comune intesa. Per non parlare, poi, in ambito espressamente cattolico, del grave problema dei lefevriani.

Spagna e Polonia: due Paesi molto cattolici, con un pesante passato persecutorio, protagonisti oggi di un antisemitismo senza ebrei e tenacemente antisemiti. Che ne pensa?

Penso che il “miglior” antisemitismo, quello più puro e agguerrito, prospera laddove gli ebrei non ci sono! È sempre stato così. La demonizzazione dell’altro può avvenire senza difficoltà in primo luogo dove l’altro non è presente o quasi. Per quello che poi riguarda il Cattolicesimo polacco e spagnolo si deve considerare che si tratta di due realtà accomunate dal minore e più debole ascolto del Concilio Vaticano II, poco recepito con i suoi provvedimenti, le sue innovazioni e le sue aperture.

Qual è il suo giudizio dei rapporti tra mondo ebraico e mondo cattolico oggi?

Che non si riesce a penetrare in modo serio, incisivo e costruttivo nella mentalità del dialogo; dialogo che tra ebrei e cristiani è da intendersi e volersi come indispensabile, doveroso e privilegiato.

Che limiti vi sono da parte ebraica?

Per quanto concerne i rapporti con la Chiesa Cattolica, vi è una certa “ingenuità papista”. Si tratta di una visione un po’ caricaturale dell’universo del Cattolicesimo Romano, che va come ad identificarsi e a risolversi con il Papa, la sua Curia e il Vaticano. Di fatto non è così. È positivo che alcuni esponenti del rabbinato italiano l’abbiano compreso; penso, ad esempio, al rapporto intenso tra Rav Laras e i Cardinali Martini e Tettamanzi, ma anche al lavoro di altri rabbini italiani in questo senso.

E i principali limiti da parte cattolica?

Che non si ha sufficiente coscienza dell’importanza di questo dialogo! Proprio il Vaticano II fa comprendere che esso deve essere continuamente ricordato, alimentato e sostenuto, anche perché soffre di una sua oggettiva fragilità, legata in primis alla storia secolare che precede la promulgazione della Dichiarazione Conciliare Nostra Aetate, che è quella che ha appunto aperto e spianato la via all’incontro tra ebrei e cattolici. Nostra Aetate è importantissima, poiché segna un momento di passaggio, un radicale cambiamento di prospettiva. Il dialogo ha una sua storia precisa e disancorarlo da questa storia significa perdere la coscienza dei passi compiuti, specie con il succedersi delle generazioni. È per questo che dobbiamo far nostro il dinamismo avviato dal Vaticano II e non sopire il dialogo ebraico-cristiano. Il rischio? Dover ricominciare daccapo ogni volta. E quando la Chiesa Cattolica ricomincia daccapo, di solito fa dei passi indietro!

Tre fotografie: l’incontro del 1986 tra Rav Elio Toaff e Papa Wojtila nella Sinagoga di Roma; l’incontro tra Papa Benedetto XVI e Rav Riccardo Di Segni in quella stessa Sinagoga; uno degli incontri tra Rav Giuseppe Laras e il Cardinal Carlo Maria Martini. Che impressioni suscitano in lei?

Direi che tutte e tre hanno una loro autenticità. La prima immagine è quella decisiva da parte cattolica, dato che simbolicamente ha ritratto e sintetizzato la Svolta. La seconda esprime l’idea di una continuità, malgrado le polemiche. Proprio per questo tuttavia, si potrebbe forse dire che ciò che fa bene al dialogo è anzitutto il dialogo stesso. Ambedue queste fotografie hanno una grande valenza civile e culturale per il nostro Paese, ed è bene ricordarlo: il leader della più numerosa comunità religiosa di Roma s’incontra con il leader della più antica presenza monoteistica e biblica dell’Urbe. La terza foto si muove nella prospettiva a cui facevo poc’anzi riferimento. La Chiesa Cattolica non coincide con il Papa. E il dialogo non deve coincidere con una sorta di “G2”, per cui il Papa dei Cattolici s’incontra con il Papa degli Ebrei. Tutto ciò Laras e Martini l’hanno capito e testimoniato con un’apertura sapiente e lungimirante.

A mio avviso il rischio che si corre, pretendendo sempre da entrambe le parti il massimo dell’onestà intellettuale, è che si finisca per non dialogare. Ed è più utile dialogare tra imperfetti che stare fermi in attesa di sentirsi perfetti e in ordine.

E i rapporti tra le Chiese Ortodosse e il mondo ebraico, a che punto sono?

L’opinione diffusa è che il mondo dell’Ortodossia, nella sua eterogeneità, sia quello più refrattario al dialogo con gli ebrei. Mi pare, inoltre, che la liturgia delle Chiese Ortodosse non abbia subito riforme liturgiche di sorta per espungere dal rituale il nutrito apparato di invettive e orazioni antigiudaiche che permane ancora in uso. È vero che, in genere, le Chiese Ortodosse sono quelle meno coinvolte nel dialogo. Ciò che al momento esiste è qualcosa di estremamente fragile e delicato. Vorrei sottolineare che nell’Ortodossia la teologia coincide con la liturgia; talché il rito aderisce perfettamente con la professione di fede e la sua articolazione. Proprio per questa ragione, per le Chiese Ortodosse è impossibile riformare il canone liturgico. Di conseguenza, ancor oggi, purtroppo, in esso sopravvivono la catechesi del disprezzo, l’invito alla conversione e le invettive antiebraiche.

Sbaglio o la liturgia delle Chiese Ortodosse è identica a quella della Chiesa Cattolica di rito orientale? Anche lì il rito prevede il medesimo apparato liturgico antigiudaico?

Sì, è così. Il Concilio Vaticano II ha riformato il solo rito latino (romano e ambrosiano), mentre non è stato possibile riformare i riti delle Chiese Cattoliche Orientali (come quelle mediorientali o est-europee), dato che queste Chiese, per quanto Cattoliche e dunque in comunione con il Pontefice Romano, condividono con le Chiese Ortodosse la stessa prospettiva sulla liturgia, che è praticamente identica. Ritengo interessante segnalare che la Chiesa Russa Ortodossa sta facendo una nuova traduzione sinodale della Bibbia e che, per la prima volta, si sono posti il problema dell’originale ebraico della Scrittura. Le assicuro che, in tale orizzonte mentale, l’essersi posti questo problema è di per sé estremamente significativo. Potrebbe essere l’avvio di una svolta nei rapporti tra l’Ortodossia e l’ebraismo.

Sarebbe lecito preoccuparsi per un possibile antisemitismo cristiano di ritorno?

Sì e no. Sì, nel senso che il problema, almeno parzialmente, si pone ed esiste. No, nel senso che può essere neutralizzato oggi da due realtà particolari e inedite: l’Europa unita e il dialogo interno alle varie confessioni cristiane. Insomma, la libertà fa bene a tutti. Uno dei valori che l’Europa veicola è quello della libertà, specialmente intesa come libertà di culto, di espressione, di autodeterminazione. Questo dovrebbe portare a un ampliamento degli orizzonti, a un diffondersi della reciproca conoscenza e curiosità. In questa prospettiva, per quanto riguarda i simboli religiosi -kippà, crocefisso, velo-, si è persa un’interessante occasione di discussione. È sfumata cioè la possibilità di discutere insieme sul senso che essi oggi possono veicolare, sulla loro valenza pubblica. E sull’opportunità, da parte delle autorità civili e politiche, di intervenire sulla presenza dei simboli religiosi negli spazi pubblici.

E circa il dialogo interconfessionale tra i cristiani?

Sono convinto che la comunione faccia bene a tutti. Il dialogo delle Chiese tra loro non può prescindere dal dialogo, -di tutte riunite e di ciascuna separatamente-, con il mondo ebraico. Se le Chiese Cristiane vogliono avvicinarsi l’una all’altra non possono prescindere dal dialogare con Israele. Per riprendere Karl Barth, il grande teologo protestante del XX secolo, al fine di ricucire strappi, lacerazioni e scismi, le Chiese Cristiane devono risolvere il problema del primo grande scisma, quello tra Chiesa e Sinagoga.

Tra le personalità del mondo ebraico italiano ritengo interessanti certamente Amos Luzzatto e Rav Laras, ma anche il rabbino della mia città, Rav Sermoneta, e con lui molti altri rabbini italiani, ad esempio Rav Caro e Rav Di Segni. In una dimensione globale, ho un debole per Rav Adin Steinsaltz.

Come storico, quali sono le previsioni per il Cristianesimo occidentale in un’epoca di crisi delle vocazioni, di bassissima crescita demografica e in un contesto ampiamente decristianizzato?

Cito al riguardo la parabola evangelica dei cattivi vignaioli presente nei tre Vangeli sinottici (Mt XXI, 33-44; Mc. XII, 1-11; Lc. XX, 9-18), parabola che è stata per secoli letta in senso fortemente antigiudaico e diffamatorio, tipico esempio della cosidetta teologia della sostituzione. Potremmo dire che la Chiesa, qui simbolizzata dalla vigna, è stata affidata di volta in volta a diversi vignaioli. Suoi mezzadri sono stati prima i giudeo-cristiani, poi i padri greci e orientali, poi i longobardi e i franchi, in seguito gli umanisti rinascimentali, e così via. A breve, con tutta probabilità, assisteremo a nuovi avvicendamenti.

E a chi nel prossimo futuro sarà affidata la mezzadria di questa mistica vigna?

Sul mio cellulare non vedo il numero dell’Unico e Altissimo, il solo che davvero potrebbe rispondere.