Leo Strauss e la filosofia in esilio: maturata in terra straniera, sempre “fuori posto” e alla ricerca della verità

di Ugo Volli

[Scintille. Letture e riletture] La filosofia del Novecento è ricca di autori ebrei. Anche tralasciando Ludwig Wittgenstein, Edmund Husserl e Theodor Adorno, che venivano da famiglie convertite, bisogna nominare almeno Emmanuel Levinas, Martin Buber, Franz Rosenzweig, Hermann Cohen, Walter Benjamin, Hannah Arendt, Hans Jonas, Isaiah Berlin, che tutti in un modo o nell’altro non erano solo ebrei ma pensarono intorno all’ebraismo, svilupparono temi che riconosciamo come essenzialmente ebraici. In questo gruppo ha una posizione importante anche Leo Strauss, filosofo e storico della filosofia, nato in Germania nel 1899 e morto nel 1973 negli Stati Uniti, dov’era emigrato dopo la presa del potere nazista, passando per soggiorni in Francia e in Inghilterra. Anche se ha avuto molta influenza negli Stati Uniti, dove alcuni lo considerano l’ispiratore del movimento neocon, Strauss è poco noto in Italia al di fuori degli ambienti filosofici.

Viene dunque molto a proposito una sua attenta e ampia biografia intellettuale, scritta dallo storico della filosofia Carlo Altini che porta il titolo programmatico di Una filosofia in esilio (Carocci, pp. 346, € 18). La filosofia di Strauss è in esilio, secondo Altini, non solo perché maturata quasi tutta in terra straniera, o per il carattere schivo e difficile del suo autore, ma perché Strauss aderisce con forza alla convinzione platonica per cui il filosofo è per forza “fuori posto” nella società, essendo votato alla ricerca del vero che spesso contrasta con le convinzioni popolari e con la ricerca dell’utilità che è tipica della politica.

Strauss inizia la sua ricerca in Germania lavorando nelle organizzazioni sioniste e ponendosi il problema di come si possa sviluppare un pensiero ebraico oggi. Considera intimamente contraddittori i tentativi di Cohen ed altri di identificare l’ebraismo con l’illuminismo e il kantismo, che in quel momento aveva molto successo, perché così si ignora il suo carattere rivelato e anche perché è convinto che il pensiero liberale conduca verso il nichilismo. D’altro canto non considera sufficiente, dal punto di vista filosofico come da quello personale, l’adesione all’ortodossia o all’influenza chassidica e qabalistica diffusa da Buber e dal suo amico Scholem, anche perché ritiene che il razionalismo sia un tratto fondamentale della filosofia.

Intraprende dunque una lunga ricerca storica per ricostruire le origini del pensiero illuminista moderno, passando da Spinoza e Hobbes. Si convince che oltre al fallimentare razionalismo moderno, quello del pensiero liberale, vi sia un altro razionalismo classico, di cui trova traccia in Maimonide e nelle sue fonti arabe, come Al Farabi. Esso risale da un lato naturalmente alle fonti bibliche, ma dall’altro al pensiero di Platone, che Strauss considera la fonte decisiva della razionalità occidentale. Le sue ricerche lo portano soprattutto in direzione della filosofia politica di questi autori, cioè dell’organizzazione dello Stato che essi teorizzano e del rapporto con la filosofia.

È qui che si innesta una delle innovazioni più significative di Strauss rispetto al modo di leggere la storia della filosofia, l’idea che talvolta il linguaggio filosofico sia reticente o esoterico, cioè scritto in maniera tale da evitare lo scontro frontale col potere ma da trasmettere ai dotti verità difficili e impopolari. Studiare la filosofia, ci spiega Strauss, richiede di superare il velo della reticenza e capire il senso vero del pensiero. È un cammino impervio ma ricco di soddisfazioni, come l’opera stessa di Strauss.