Joseph Roth, lo scrittore cinefilo: quando le arti si incontrano

Taccuino

di Roberto Zadik

Nella breve e intensissima vita, durata solo 45 anni,  il grande scrittore e giornalista, Joseph Roth, ebreo austriaco nato in Galizia il 2 settembre 1894, segno Vergine, non si limitò alla letteratura ma esplorò anche il mondo del cinema. Innamorato della “settima arte” egli fu appassionato di film prediligendo il genere intimista e impegnato a dispetto dei kolossal e rivelandosi spietato critico di registi e attori in voga negli anni ’30.  A rivelare questi interessanti retroscena dell’inquieto e raffinato Roth, autore di romanzi eccelsi come “La leggenda del Santo bevitore” e “Giobbe”, il suo capolavoro secondo me, è il nuovissimo libro “L’avventuriera di Montecarlo” edito da Adelphi, costo 12 euro, 272 pagine.

Volume scorrevole e pieno di gustosi “chicche” come l’amore di Roth per Buster Keaton, Charlie Chaplin e Jackie Coogan, il futuro “zio Fester” della Famiglia Addams, che assieme a lui, da bambino, fu protagonista di una pellicola commovente come “Il monello”, l’opera svela la vena critica di Roth che da buon anticonformista sfidò i critici dell’epoca divertendosi a stroncare filmoni ai tempi decisamente osannati. Alcuni esempi? La “Messalina” di Fritz Lang, autore del famoso “Metropolis” citato nel video dei Queen “Radio Gaga” del 1984 e la celeberrima “ La Corazzata Potemkin” diretta dall’eccentrico Eizenstein, regista russo di origine ebraica e resa famosa da Paolo Villaggio nel suo esilarante “Secondo tragico Fantozzi”, uscito 40 anni fa nel lontano 1976.  Tagliente fustigatore dei costumi e dell’industria dello spettacolo, assieme ai romanzi, Roth andava a vedere film e pubblicava articoli a tutto spiano, rivelandosi autore prolifico, stimolante e irrequieto. Egli  non fu solo un arguto scrittore ma divenne un classico della letteratura ebraica e raccontò ai posteri il mondo ebraico askenazita dell’epoca e la fine dell’Impero austro-ungarico, esattamente come Isaac Singer, Scorpione, ebreo polacco,narrò la vita degli Shetl, villaggi di ebrei ortodossi dell’Europa orientale.

L’esistenza di Roth fu tutt’altro che semplice e percorsa da episodi molto drammatici che ne amareggiarono il successo letterario e giornalistico e la travagliata personalità. Uomo colto e figlio della buona borghesia, si sentiva molto austriaco, si arruolò nell’esercito imperiale anche se poi divenne pacifista e parlava perfettamente il polacco, il tedesco e lo yiddish. Sua madre morì di cancro nel 1922 e sua moglie, Friederike Reichler, chiamata affettuosamente, Friedl, impazzì e morì poco dopo e i suoi genitori emigrarono in Palestina. Nonostante questo la febbrile attività di Roth continuò imperterrita. Geloso della sua consorte, riservato, spiritoso e stravagante, Roth aveva un carattere eccentrico e stimolante, magnetico, versatile e complicato. Fu un ingegno precoce e fertile e la sua inesausta fantasia lo portò a inventare leggende anche sulla propria vita, al pari del cantautore ebreo americano Bob Dylan che sornione come sempre rispondeva alle domande dei giornalisti raccontando incredibili vicende. A  venticinque anni egli iniziò la sua fulminante carriera giornalistica, scrivendo articoli, recensioni e occupandosi di vari argomenti, fra cui il cinema e diventando acclamato corrispondente culturale fra Germania e Austria per l’importante quotidiano “Frankfurter Zeitung”.  Roth descrisse parallelamente sia la sua Austria e l’Impero, da segnalare opere come “La marcia di Radetzky” e la “Cripta dei Cappuccini” che la sua identità ebraica che però venne fuori palesemente solo nel già citato “Giobbe” il suo unico libro davvero ebraico e il mio preferito. Uscito nel 1930, questo grande romanzo, descrive la struggente storia di Mendel Singer un uomo religioso che genera quattro figli, fra cui Menuchin, deforme e affetto da epilessia. Ispirato alla Torah e alla storia di Jov, Giobbe, questo testo scritto con stile arguto e efficace, tipico di Roth, descrive con vena introspettiva e grande sensibilità le grandi sofferenze di Singer e la sua incrollabile fede nonostante tutti i dolori e la bellissima scena finale col figlio Menuchin è una delle parti più emozionanti del testo.

Vicissitudini famigliari e scatenata vita mondana caratterizzarono la breve esistenza di Roth che,si dedicò a intensi reportage e viaggiò in vari Paesi, dall’Albania. Poi la sua situazione peggiorò sempre di più e  gli ultimi anni della sua vita furono molto amari. Con l’avvento del nazismo, nel 1933 tutto cambiò e Roth  cominciò a bere molto, il suo “Santo bevitore” si ispirò proprio al suo alcolismo,  frequentò varie donne e si trasferì a Parigi. Lì visse come esule i suoi ultimi e tormentati anni di vita e morì di polmonite, povero e malato, pochi mesi prima dello scoppio della Seconda Guerra Mondiale, il 27 maggio 1939 a soli 44 anni. Di questo periodo non si sa molto, e probabilmente si avvicinò al cattolicesimo tanto da venire sepolto nel cimitero cattolico parigino, ma questa “voce di cortile” rimane uno dei tanti misteri di questo enigmatico e geniale autore.