Amos Gitai

Spettacolo

Incontro a Locarno.

Capelli brizzolati, modi di fare discreti, sorriso accattivante. Si presenta così, in ottima forma e alla soglia dei 60 anni, Amos Gitai al festival internazionale del film di Locarno, dove nei giorni scorsi gli è stato tributato un pardo d’onore. Gitai conosce bene la rassegna ticinese, dove viene da anni e dove tempo fa incontrò Youssef Chaïne, il grande regista egiziano recentemente scomparso, al quale è rimasto legato da un’amicizia profonda e sincera.
Sulla Piazza Grande davanti a oltre 8.000 spettatori Gitai ha anche presentato il suo nuovo film “Un giorno capirai” con Jeanne Moreau e Hippolyte Girardot. La bella storia di un padre di famiglia francese che solo oggi scopre e si appropria delle proprie origini ebraiche.

Architetto di formazione, Gitai ha sempre avuto la passione per il film. Determinante per il suo cammino di regista è però stato l’abbattimento dell’elicottero militare sul quale, soldato nella guerra di Kippur, filmava con la piccola super8 regalatagli da sua madre. Gitai si salvò per miracolo e da allora la macchina da presa divenne, come dice lui, “lo strumento più congeniale per capire la realtà”.
E infatti nei suoi film come nei suoi documentari Gitai cerca di capire, descrivere, mettere a fuoco, visioni che sono al tempo stesso realistiche e metaforiche – allegorie dell’anima e di una realtà spesso meno evidente di quanto non sembri a prima vista.
Così Gitai si è a più riprese confrontato con le contraddizioni e le difficoltà della società israeliana: dal contenzioso con i palestinesi (in Kippur, Bayit e Free Zone) alle spaccature religiose (in Kadosh). Criticato anche violentemente per i suoi film, Gitai ha a lungo vissuto a Parigi.

Mosaico lo ha incontrato.


Amos Gitai, sovente lei ha affrontato di petto tematiche spinose, raccogliendo non di rado critiche anche feroci. Perché è così difficile parlare d’Israele?

Innanzitutto penso che i media continuano a darci un’immagine stereotipata di quanto avviene. Ovunque vediamo le stesse immagini, gli stessi reportages. Il conflitto israelo-palestinese è probabilmente il più mediatizzato della storia, quello di più facile accesso giornalistico, tagliato su misura per una copertura mediatica facile e immediata. In Darfur o in Afghanistan il lavoro di un giornalista è certamente ben diverso. Per assurdo quindi parlare d’Israele richiede uno sforzo e una fantasia particolare, e questo non a tutti piace.


Una volta lei ha detto che per mostrare una realtà complessa come quella medio-orientale è utile concentrarsi su singoli aspetti, singole persone. A questo si potrebbe obiettare che singoli individui o singoli fatti non possono comunque mai rappresentare una realtà che rimane quanto mai complessa.

Vede, sono stato criticato per molte cose, anche per questo. Ma preferisco concentrarmi sulle mie ragioni. Penso che la cultura israeliana, e intendo tutta la cultura non solo quella cinematografica, debba restare in un dialogo con il mondo. Non penso che la cultura sia poi un mezzo particolarmente efficiente per cambiare le cose; esistono mezzi decisamente più effettivi quali la politica, i mitra. Ma la cultura, e quindi anche un cinema critico, può innescare una discussione, un dibattito. In questo senso ritengo che un film critico (ragionevolmente critico) sia un omaggio al proprio paese. Perché significa che il paese ha la capacità e la maturità di porsi domande critiche. Un paese debole produce solo pamphlet turistici. Un paese forte invece sa di non essere perfetto, e Israele è certamente lungi dall’esserlo. Il cinema isareliano in questo senso sta facendo la sua parte.


Ben Gurion si augurava che Israele un giorno sarebbe stato uno stato normale. Lei stesso ha per molti anni subito critiche durissime per i suoi film e i suoi documentari. Oggi, per la prima volta, c’è una nuova generazione di registi israeliani che affronta di petto tematiche sin qui tabù. Perché, per il cinema israeliano, è stato fin ora così difficile parlare normalmente di determinati argomenti?

Beh, non è mai troppo tardi per farlo. Guardi Rossellini o De Sica che dopo la guerra nei loro film hanno tematizzato la povertà, la miseria. Anche lì si poteva obiettare che non era il caso di parlare dei Ladri di biciclette, ma l’Italia aveva e ha ladri di biciclette, forse ne ha troppi e forse alcuni stanno persino in parlamento, perché non farne un film? O pensi a Victor Hugo, quando ha scritto I miserabili non ha certo screditato la Francia: ha parlato di una realtà. Non penso che un film abbia o abbia mai avuto il potere di trascinare nel fango un paese.
Penso anzi che il senso critico all’interno d’Israele distingua questo paese dalle altre autocrazie nel Medio-oriente. Se oggi abbiamo una grande quantità di film prodotti in Israele, allora questo è certamente un segno positivo e un’evoluzione che va ulteriormente incoraggiata.


È un’opinione abbastanza diffusa nel mondo ebraico che il popolo d’Israele è e sarà sempre perseguitato, al di là di ogni trattativa o accordo di pace. Lei, come regista e come ebreo, come si pone di fronte a questa visione? Ne è mai stato vittima?

Non so. E né io né lei siamo in grado di dire se questo avverrà o no, perché non abbiamo una visione deterministica della storia. In ogni caso però penso sia importante combattere una tale visione. Penso che dobbiamo denunciare l’antisemitismo là dove c’è e non spaccarci la testa se esiste o no.


Domanda personale, lei è religioso?

No.


Pensa che se lo fosse, i suoi film e il suo senso critico sarebbero diversi?

Probabilmente.


Può un religioso essere davvero critico?

Lo chieda a lui.


Lei cosa pensa?

Penso che sia difficile per un religioso essere sinceramente critico. Penso che qualcuno che crede in qualcosa non voglia metterlo in dubbio.


Questa autonomia di pensiero è senz’altro uno dei segni distintivi del nuovo cinema israeliano che si sta finalmente liberando da molti tabù? C’è qualche autore che ritiene particolarmente interessante?


Non parlerei di nuovo cinema israeliano, piuttosto di singoli autori che fanno del buon cinema e che ora iniziano ad affermarsi. Per esempio citerei Ran Tal che nel suo documentario Children of the Sun con coraggio smitizza la vita nei kibbutz negli anni ’50 e ne mostra i limiti e le assurdità. Oppure Keren Yedaya che con Or qualche anno fa a Cannes vinse la Camera d’Oro. Un film in cui volge uno sguardo freddo e al tempo stesso neutrale sul difficile rapporto fra una ragazza, Or, e la madre prostituta.


Ogni espressione verbale o visiva è per sua natura politica, ideologica e riflette la posizione e la biografia di chi la esprime. Nel suo cinema lei prende posizioni abbastanza chiare, al contempo però non trascura quella che definirei la poetica delle immagini. Quali di queste due alimenta l’altra?

Sono felice di questa domanda che va al di là degli aspetti puramente politici. Sono ebreo e felice e fiero di esserlo. Trovo sia una realtà storica incredibile che gli ebrei siano rimasti attaccati per tanti secoli alle loro tradizioni. Ma difendo allo stesso tempo il fatto che ciascuno ha il diritto di avere un’opinione propria, foss’anche minoritaria. E pur non essendo religioso porto a mia volta rispetto a questa parte del mio popolo.
Nei miei film mi prendo la libertà di esprimere la mia lettura e la mia personale interpretazione dei fatti; direi nella buona tradizione ebraica di avere un’opinione e un punto di vista autonomo e personale.