Tra Milano e Roma, Franca ha attraversato la vita e la storia

di Ilaria Ester Ramazzotti

La voce di chi ha vissuto/2 – Continuiamo con la pubblicazione di una serie di interviste agli anziani della nostra Comunità, per raccogliere la loro memoria storica, prezioso insegnamento di vita.

La nascita nel Ghetto di Roma, l’infanzia a Milano, nella Scuola di via Eupili; poi le Leggi razziali e l’amica del cuore scomparsa nella Shoah. La voce indomita di Franca Speranza Fiorentino

 

Mio nipote David è l’unico a chiamarmi Speranza. Mi chiamano tutti Franca, il nome che ho preso in memoria della mia carissima amica d’infanzia Franca. A Roma, dove sono nata, giocavamo sempre insieme, eravamo inseparabili. Abitavamo nel ghetto, e lei proprio di fronte al Tempio. Poi è morta negli anni della Shoah”.
Quello con Franca Speranza Fiorentino è il primo dei nostri incontri con le persone della comunità ebraica milanese che ci portano le loro testimonianze e che ci offrono la loro memoria storica, quale occasione di conoscenza e di riflessione, “perché, come dice Liliana Segre, non bisogna mai dimenticare”. Franca Fiorentino, ebrea italiana cresciuta fra Roma e Milano, ci parla della sua infanzia, della vita comunitaria e degli anni delle leggi razziali, della guerra e delle deportazioni, ma anche, orgogliosamente, delle sue figlie e delle sue nipoti.

Milano: la comunità, prima della guerra
“Prima della guerra, a Milano c’era una bella comunità, molto frequentata. Io ero un’alunna della scuola ebraica di via Eupili. Era molto bello, ricordo che c’era il rabbino Schaumann. Io e mia sorella prendevamo ogni giorno il tram numero 1 per andare dalla zona di via Larga, dove abitavamo, fino alla scuola. Dovevamo andare alla fermata oltre piazza del Duomo, poi scendere vicino alla scuola e fare un altro pezzo a piedi. Una bella passeggiata! Ancora oggi, quando vedo passare l’1 mi ricordo dei tempi della scuola.

In via Eupili c’era anche mia cugina, oltre alla bambina che in futuro sarebbe diventata mia cognata. Avevo anche dei cugini maschi, che andavano sempre al tempio di via Guastalla insieme a mio zio e a mio padre per fare il numero necessario per le preghiere. All’epoca si andava in Guastalla, non esistevano ancora i templi dall’altra parte della città e la scuola ebraica di via Sally Mayer, dove poi anche una delle mie nipoti ha fatto il Bat Mitzva. Le altre mie nipoti, invece, l’hanno fatto in via Eupili”. Emerge nelle parole della signora Franca il ricordo di una comunità partecipata, del tempio di Guastalla pieno per lo Shabbat o per le festività, “quando si andava tutti insieme a prendere la berachà ed era sempre emozionante!”.

Gli anni della guerra e della Shoah
“Negli anni della guerra, invece, siamo andati ad abitare a Roma, dove c’erano i miei nonni, perché il negozio di abbigliamento che mio padre aveva a Milano, vicino a via Larga, era stato chiuso” a causa delle leggi razziali. “A Roma c’era anche mia zia, la sorella di mio padre, che era sposata e aveva un bambino. Io le avevo fatto da damigella. Sua mamma e suo papà abitavano nel ghetto, mentre mia zia e suo marito abitavano un po’ più lontano, a Monteverde. A quei tempi vendevano gli ebrei per cinque mila lire, che allora erano una bella somma. Un giorno, mia zia e mio zio, col bambino, sono andati a trovarli, ma nel chiamarli sotto la loro casa sono stati raggiunti da due fascisti, che poi hanno portato via mio zio! Purtroppo è finito ad Auschwitz”. Così, le parole della signora Franca descrivono l’episodio rimasto scolpito nella memoria della sua famiglia, forgiandone tutto il successivo futuro.
“Una volta, due tizi sono andati là a cercare mio papà e mio zio Alberto, un altro mio zio, nella casa nel ghetto. Hanno chiesto a mia mamma e a mia zia, che però ha fatto finta di essere un po’ matta, mentre mia mamma ha detto di non sapere niente. Così se ne sono andati via. E pensare che invece mio papà era nascosto sotto il letto e mio zio si era chiuso nel bagno! Non solo, si era chiuso nel bagno e stava fumando una sigaretta. Così mia mamma vedeva il fumo sugli specchi in corridoio, a rischio che fosse scoperto! ‘Sapevo che era l’ultima sigaretta’, le ha poi risposto di fronte al suo sconcerto”! Erano giorni difficili, si viveva nascosti e braccati. “Alcuni parenti sono stati catturati e portati alle Fosse Ardeatine”, aggiunge la signora Franca. “Poi, la famiglia è andata a nascondersi a casa di mia zia a Monteverde, che era piccola, ma almeno non era nel ghetto. Nascondendosi là, si sono salvati – prosegue -. In quei giorni, io e mia sorella andavamo in tram a portare loro da mangiare”.
“E pensare che mio nonno Angelo aveva fatto la prima guerra mondiale nell’esercito italiano”. Quella di Franca è una delle famiglie ebraiche che tanto avevano fatto per l’Italia, prima di venire colpite dalle Leggi razziali e dalla Shoah. “Ricordo che mia zia, rimasta sola, diceva di sognare sempre dei girasoli. Molto tempo dopo la guerra, suo figlio ormai adulto è voluto andare ad Auschwitz, dove era morto suo padre. Arrivando ha trovato dei girasoli lungo la strada. Così gli era sembrato che suo papà fosse lì”.
Intanto, l’uomo che sarebbe diventato il marito di Franca, Mosè Dana, veniva catturato e deportato a Bergen Belsen, dove è rimasto per undici mesi. “Ai tempi della guerra, anche la famiglia di mio marito a Milano ha vissuto eventi drammatici. Una zia di mio marito, rimasta vedova con due figlie di 13 e di 17 anni, viveva aiutata dalla Comunità Ebraica di Milano. Una volta, dopo essere andata in centro a prendere degli aiuti, tardava a rientrare. Allora suo zio, che sarebbe poi diventato mio suocero, ha telefonato in Comunità per avere sue notizie. Per tutta risposta gli hanno detto che in centro stavano portando via degli ebrei! “Non muovetevi da casa”! Purtroppo, anche la zia di mio marito è stata deportata. I fascisti giravano spesso per il centro cercando ebrei e suonavano ad ogni portone”.

Il Dopoguerra e il ritorno a Milano
“Dopo la guerra, siamo ritornati a Milano. Mio papà aveva riavuto la sua licenza di commerciante – spiega la signora Franca -. Abbiamo ritrovato i vicini di casa e gli altri commercianti di via Larga, che erano felici di vederci tornare. Erano tutti bravi, sapevano che la guerra non era una bella cosa. A quei tempi, il quartiere era come una sorta di famiglia. Vicino a noi c’era una parrucchiera molto brava e c’era anche un ragazzo che passando mi portava dei libri da leggere – ricorda -. Una volta lui ha visto un nostro libro in ebraico e mi ha chiesto di che cosa si trattasse. “Un libro di musica”, gli ho risposto! Lui avrebbe voluto approfondire la conoscenza, ma essendo cattolico non sarebbe mai stato possibile. E comunque mio padre non avrebbe mai approvato. Così non mi facevo trovare, tenendo chiusa la porta del negozio. Alla fine, dai e dai ho messo insieme quel ragazzo con la parrucchiera!”
“Mi sono sposata a 23 anni, che all’epoca era un po’ tardi. Ma ho sposato un uomo ebreo. Era indispensabile per me e mio padre ci teneva moltissimo. Mia sorella si è sposata a 18 anni, ma a Roma. All’epoca, per sposarsi, bisognava avere una bella dote, perché la famiglia dello sposo la chiedeva. A Roma comunque si usava così, ma io volevo stare a Milano, anche se tempo addietro mi era stato presentato un ragazzo romano. Mia nonna mi aveva accompagnata in un bar un po’ distante dal ghetto, perché era meglio non farsi troppo vedere. Là ho parlato un po’ con questo ragazzo, mentre mia nonna aspettava”. La memoria torna così alle usanze e alle regole sociali fortemente sentite e vissute, quando alle giovani in età da matrimonio venivano presentati dei ‘pretendenti’ sotto la sorveglianza e l’approvazione delle famiglie, nel corso dello svolgersi di relazioni sociali, amicali e comunitarie che offrivano protezione e partecipazione.
“In seguito, un’amica di mia mamma insieme a un’altra donna, a Milano, mi ha fatto conoscere quello che sarebbe diventato mio marito, Mosè Dana. Per l’occasione avevano organizzato una gita in Liguria tutti in compagnia. Dopo il pranzo, io e lui abbiamo fatto una passeggiata per conoscerci un po’ meglio – sottolinea -. In seguito, una domenica, abbiamo avuto modo di fare un’altra gita insieme in Liguria. Ma un conoscente di Milano ci ha visti! Era infatti usanza che i commercianti della via si ritrovassero dopo il lavoro tutti insieme per parlare e incontrarsi. Così è successo che l’hanno riferito a mio papà”! Emerge infine nei ricordi di Franca la vecchia Milano, la città degli anni della Ricostruzione e del boom economico, una Milano che manteneva saldamente una vita quotidiana e una forte socialità legate al quartiere, fatta di relazioni e frequentazioni intessute nelle tradizioni locali. “Nel quartiere ci si conosceva tutti e c’era amicizia. Io avevo amiche che abitavano vicino. Era così, in quei tempi – ricorda Franca -. Era il 1963, l’anno in cui ci siamo sposati. Abbiamo svolto la cerimonia nel tempio di via Guastalla. Ma dopo la guerra avevo frequentato anche il tempio di via Unione”.
Insieme al marito, Franca ha continuato a lavorare come commerciante a Milano e in provincia di Milano, poi trasferendosi a Baranzate di Bollate. Le sue due figlie, per un periodo, hanno frequentano le scuole là, mantenendo sempre i contatti con la comunità ebraica, soprattutto durante le festività. “A Baranzate, durante le ore di religione – ci spiega -, grazie a una insegnante brava e perspicace hanno potuto parlare agli altri della nostra religione, senza problemi”. “Dopo però siamo rientrati a Milano, così le nostre figlie sono potute andare alla scuola ebraica di via Eupili. Sempre in via Eupili hanno fatto il Bat Mitzva”.

Quattro nipoti  e un matrimonio in Israele
Oggi Franca ha anche quattro nipoti, di cui mostra tutte le foto. “Una di loro si è sposata in Israele, dove si era già trasferita per studiare. Anche mia figlia era andata a studiare in Israele”. In occasione del matrimonio, la signora Franca per la prima volta ha preso un aereo ed è giunta in Israele.
Come non ricordare i suoi anni di guerra e di persecuzione, nel vederla arrivare finalmente in Israele, con parenti e nipoti? “Una esperienza straordinaria – sottolinea -. In Israele abita anche un cugino di mio marito, l’unico che si è salvato dalla Shoah di tutta la sua famiglia e che non è mai voluto ritornare in Italia. Si chiama come mio marito, Mosè Dana – conclude -. Siamo stati felici di ritrovarci in Israele”.