Simone Veil

«Tra le baracche ho capito… che l’ebraismo sarà per me imprescindibile»

di Marina Gersony

Ministro, magistrato, accademica di Francia,  prima Presidente del Parlamento Europeo. Deportata  e sopravvissuta ad Auschwitz, Simone Veil si racconta  in un nuovo libro postumo. Vita e opere di una guerriera

Un volto bellissimo, intenso; lo sguardo combattivo e penetrante. È il ritratto iconico di una Simone Veil giovanissima; un ritratto in bianco e nero che spicca sulla copertina del libro Alba a Birkenau, pubblicato in questi giorni dalla casa editrice Guanda. (Simone Veil. Testi raccolti da David Teboul, pp. 288, euro 19,00). Simone Veil, la magistrata, la ministra, l’accademica di Francia, prima Presidente del Parlamento Europeo nonché l’attivissima e instancabile testimone della Shoah. Grazie al suo esemplare impegno politico, storico e sociale, Veil ci ha consegnato la testimonianza di una vita ispirante e una forte eredità morale. Una vita difficile e movimentata la sua, che lei stessa ha raccontato più volte in numerose interviste che oggi è possibile ascoltare e vedere anche su youtube. Il nuovo libro uscito di recente in Italia offre tuttavia un valore aggiunto rispetto alla vastità del materiale in circolazione sulla sua figura. Sono le riflessioni, gli aneddoti e i pensieri più intimi di questa grande donna capace di dolcezza e di determinazione; una contestatrice e una combattente nata che ha lottato per un’Europa più unita, equa e giusta, per i diritti delle donne dando voce a chi non ne aveva. David Teboul, curatore del libro, esprime le sue emozioni nell’aver raccolto le parole di Simone, sua grande amica, durante i loro ripetuti incontri avvenuti nel corso degli anni. Affascinato da lei fin dall’adolescenza, il regista e fotografo francese – noto soprattutto in Francia per aver ha realizzato svariate installazioni e numerosi documentari, tra i quali Yves Saint Laurent 5, avenue Marceau 75116 Paris e Mon Amour – ricostruisce la vita di Veil in un racconto inedito e suggestivo, impreziosito da dialoghi e da foto di grande impatto visivo in tempi in cui la trasformazione digitale ha trasformato la narrativa e l’approccio alla conoscenza.

Un libro dinamico, dunque, rapido e insieme profondo che si legge d’un fiato anche grazie alla grafica innovativa che alterna frammenti di testi, didascalie e immagini potenti. Come quelle di Veil che ritorna dopo molti anni ad Auschwitz, la prigione dove era stata picchiata dalle SS e dove aveva vissuto l’inenarrabile. «Il nostro viaggio ad Auschwitz è stato doloroso e sconvolgente per Simone – annota Teboul nel libro –. C’era già tornata per alcune commemorazioni, ma non aveva mai voluto entrare nelle baracche di Birkenau, dove aveva alloggiato per qualche mese. C’era bel tempo ma faceva freddo, avevamo camminato molto. “Niente assomiglia più al campo di allora. Vedo un immenso parco. Birkenau era fango, cielo nero e odori”. Mentre entrava nella sua baracca, Simone si è stupita della vicinanza ai forni crematori. Il campo le è sembrato minuscolo; nei suoi ricordi di deportata tutto era più grande».

Chi era Simone Veil? Chi era l’austera e appassionata signora dal severo chignon castano e dai verdi occhi cangianti dal taglio orientale? Chi era la paladina delle ingiustizie, simbolo per tutte le donne e modello di coraggio e dignità? Sintetizzare la su vita in poche righe è un’ardua impresa. Veil nasce nel 1927 a Nizza in una famiglia borghese di ebrei parigini «in cui la laicità era la norma da generazioni»; a sedici anni, nel marzo del 1944, viene arrestata e deportata ad Auschwitz-Birkenau con la madre e le sorelle Milou e Denise. Liberata nel 1945, studia Legge e intraprende la carriera in magistratura. Nel 1974 diventa Ministro della Sanità in Francia e si impegna in prima persona per la legalizzazione dell’aborto. Nel 1979 diventa la prima donna Presidente del Parlamento Europeo. Seguono anni di successo e di soddisfazioni: una bella famiglia, figli e nipoti, una vita privata e una vita pubblica che procedono al meglio. L’ex ragazza con il numero 78651 tatuato sul braccio, sopravvissuta a Birkenau, che ha visto la morte in faccia, sembra aver trovato finalmente il suo posto nel mondo dopo l’incubo della deportazione. Ma la vita non finisce mai di sorprendere, nel bene e nel male. Nel 2002 muore suo figlio Nicolas per un attacco cardiaco, un colpo durissimo che nessuna madre può accettare.

Nel 2013 perde anche l’amatissimo marito Antoine, compagno di una vita, il suo migliore amico e primo consigliere. Simone muore nel 2017 e la Repubblica francese la vuole nel Panthéon di Parigi, quinta donna a ricevere il solenne onore. Il primo luglio 2018 viene sepolta al Panthéon.

Nel libro Simone Veil parla in modo dettagliato della sua famiglia, le origini, parla della giovinezza bruscamente interrotta a soli sedici anni a causa delle Leggi razziali e della deportazione; parla di quel convoglio 71, partito dalla Francia il 13 aprile 1944 che trasportava millecinquecento persone, tra le quali la sua famiglia e alcuni dei bambini d’Izieu. (Al più piccolo di loro, Albert Bulka, ucciso appena arrivato ad Auschwitz, è dedicato il libro Alba a Birkenau); Simone rivive la lotta per la sopravvivenza nel campo di concentramento, le continue umiliazioni subite, e la nascita di amicizie che l’accompagneranno per sempre. Il curatore del libro Teboul raccoglie alcune voci tra loro, come quelle di Denise, sorella maggiore; o di Marceline Loridan-Ivens, regista e amica inseparabile, compagna di prigonia a Birkenau. Non ultima, quella di Paul Schaffer, al quale Simone era affezionatissima, anche lui deportato ad Auschwitz e poi trasferito nel campo di Bobrek. Veil sottolinea come, dopo la liberazione, l’esperienza della Shoah abbia avuto un impatto fondamentale sulla sua vita, sulle sue scelte e sul suo impegno politico.

Toccanti infine le sue parole sul “suo” ebraismo e sul suo sentirsi ebrea, che chiudono il libro: «Nata e cresciuta in una famiglia francese da generazioni, ero francese senza farmi domande. Ma cosa significa per me e per i miei genitori essere ebrei, dal momento che in quanto agnostici – come già i miei nonni –, la religione non era praticata nella nostra famiglia? Da mio padre ho imparato soprattutto che la sua appartenenza all’ebraismo era legata alla sapienza e alla cultura che gli ebrei hanno acquisito nel corso dei secoli, in tempi in cui davvero pochi vi avevano accesso. Erano rimasti il popolo del Libro, nonostante le persecuzioni, la miseria e l’erranza. Per mia madre, consisteva soprattutto in un attaccamento ai valori per i quali, durante la loro lunga e tragica storia, gli Ebrei non avevano mai smesso di lottare: la tolleranza, il rispetto dei diritti di ognuno e di tutte le identità, la solidarietà. Entrambi sono morti deportati, lasciandomi come unica eredità questi valori umanistici che secondo loro erano incarnati dall’ebraismo. Da questa eredità, non mi è possibile dissociare il ricordo sempre presente, ossessivo persino, dei sei milioni di ebrei sterminati per la sola ragione di essere ebrei. Sei milioni di persone tra le quali i miei genitori, mio fratello, e tanti miei cari. Non posso separarmi da loro. Questo è sufficiente perché, fino alla mia morte, l’ebraismo sia per me imprescindibile. Il Kaddish sarà recitato sulla mia tomba».