di Marina Gersony
C’era una volta, nella cittadina di Tarnopol, una comunità ebraica vivace e profondamente radicata nelle sue tradizioni, che attraversava il tempo con speranza e devozione. Situata nella storica Galizia, un tempo parte dell’Impero Austro-Ungarico e poi della Polonia tra le due guerre (oggi in Ucraina), Tarnopol era un centro fiorente di cultura e spiritualità. Con una popolazione di circa quattordicimila ebrei, la città era uno dei fulcri dell’Haskala, il movimento dell’Illuminismo ebraico, dove biblioteche, teatri e scuole pulsavano di dibattiti filosofici e politici. Le discussioni animavano ogni angolo, e la vita quotidiana della comunità era intrecciata a un senso di appartenenza e apertura cosmopolita verso il mondo.
In questo contesto, il 28 di Av 5694 (9 agosto 1934), nacque Michael Urich, unico figlio di una famiglia ebraica benestante. Poco dopo la sua nascita, la famiglia si trasferì a Varsavia, dove Michael trascorse un’infanzia serena, circondato dall’affetto dei genitori e dalle tradizioni ebraiche che riempivano di calore le festività. Il bambino non poteva immaginare che quel mondo, così stabile e rassicurante, sarebbe stato spazzato via in un istante. L’invasione tedesca della Polonia il 1º settembre 1939, seguita dall’occupazione sovietica del 17 settembre, segnò l’inizio di un’epoca di incertezze. Le strade di Varsavia si fecero silenziose, le attività politiche vennero interrotte, le imprese nazionalizzate, e la comunità ebraica cominciò a vivere con il peso di un futuro sempre più cupo.
La vera devastazione arrivò nel 1941, con l’occupazione tedesca che trasformò la Polonia in uno scenario di atrocità inimmaginabili: pogrom, deportazioni e la creazione di ghetti dove migliaia di ebrei furono confinati in condizioni disumane.
A soli cinque anni, Michael vide l’infanzia dissolversi. La sua famiglia fu costretta a rifugiarsi nel ghetto di Varsavia, ma la tragedia divenne una presenza costante. Il giovane perse tutto: i suoi genitori, la casa, la sicurezza. In un disperato tentativo di salvarsi, la famiglia si separò, un atto che, purtroppo, avrebbe segnato per sempre le loro vite, ma che permise a Michael di sopravvivere.
Prima di lasciarlo andare al suo destino, sua madre cucì il suo nome, le sue origini e la sua data di nascita nell’orlo del suo cappotto e il padre lo affidò a Helena Stachowicz, una donna polacca cattolica che, con la sua fede, divenne per lui l’unico scudo contro la tragedia che stava per travolgerli. Nel 1944, dopo la rivolta di Varsavia, Michael fu deportato insieme alla famiglia Stachowicz a Buchenwald, uno dei campi di concentramento più temuti. L’esperienza nei lager era quella di un incubo senza fine: il freddo penetrante, la fame, la paura che ogni giorno potesse essere l’ultimo. Michael visse nascosto, un’ombra tra le ombre, sempre in guardia, sempre consapevole che un soldato tedesco poteva scoprire la sua identità e porre fine alla sua esistenza. Il carbone nero che copriva la terra, i vagoni stracolmi che viaggiavano in un’Europa come un corteo di morte, i forni crematori che inghiottivano le vite: tutto diventò una parte del suo mondo.
Una storia, quella di Michael, che ricorda da lontano quella di Aaron Appelfeld, il grande scrittore sopravvissuto all’Olocausto, scomparso nel 2018. Come Urich, anche Appelfeld trascorse la sua infanzia in fuga dai nazisti, nascosto nelle foreste, protetto dalla coraggiosa generosità di contadini che rischiarono tutto per salvarlo. Le storie di infanzie spezzate, di perdite e di terrore sono infinite, ognuna straziante nella sua unicità, ma unite da un destino comune.
Michael aveva 10 anni e pesava 28 chili quando fu rilasciato da Buchenwald. Eppure, tra quel buio, una piccola luce di speranza non si spense mai: ogni giorno sognava che la guerra finisse, che potesse riabbracciare la sua famiglia. Ma quando la guerra giunse al termine nel 1945, di loro non rimase traccia. Michael, come tanti altri bambini ebrei, rimase sospeso in un limbo di incertezze, perduto in un mondo che sembrava aver dimenticato lui e gli altri come lui.
La liberazione, tuttavia, non significò per lui una fine in senso tradizionale. Helena Stachowicz, nominata in seguito una Giusta tra le Nazioni, affidò Michael al Rabbi Dr. Ya’Acov Avigdor, un ebreo polacco che lo accompagnò in Svizzera, dove fu accolto in un orfanotrofio. Molti giovani sopravvissuti di Auschwitz e Buchenwald studiarono lì, e Michael vi rimase per un anno. Tentò poi di rintracciare i suoi genitori, ma senza successo.
Il ragazzo si trovò così a ricostruire la sua vita in Israele dove emigrò nel giugno 1946 con l’aiuto della Jewish Agency, per proseguire gli studi in un’istituzione per sopravvissuti a Bnei-Berak e in diverse yeshiva. Sebbene il suo corpo fosse segnato dalla sofferenza e dalla fame, il suo spirito non si era mai spezzato. Non era più il bambino che si nascondeva, ma un giovane uomo che cercava un senso in quella nuova vita.
Nel 2008, scrisse il suo libro, Il bicchiere mezzo pieno. Il racconto di un sopravvissuto alla Shoah (editore Yume; traduzione di Valeria Habib Jorno; pp.192, € 15,00), dove racconta non solo le atrocità che ha vissuto, ma anche la scelta di andare avanti. «Nonostante tutto, ho scelto di vedere il bicchiere mezzo pieno. Ho scelto la vita, la speranza e la fede nell’umanità», dichiarò in un’intervista.
L’incontro a Milano
Abbiamo incontrato lo scrittore a Milano, un signore alto e distinto dallo sguardo vivace. Un incontro breve ma intenso, ricco di emozioni e silenzi significativi. Michael Urich, instancabile e determinato, porta la sua testimonianza nelle scuole e istituzioni di tutto il mondo, con uno sguardo che riflette forza e profondità. Oltre a testimoniare, sostiene i pochi superstiti della Shoah ancora in vita. Ha fondato un centro informazioni a Bnei Brak, rivolto in particolare alla comunità haredi, dove offre supporto e assistenza sulle procedure di risarcimento. Padre di tre figli e nonno di nove nipoti e pronipoti, continua questa missione con dedizione, guidato dall’amore per la fede e le generazioni future.
In un’epoca in cui il negazionismo e l’indifferenza minacciano la verità storica, il tragico 7 ottobre 2023 ha segnato un punto di svolta. Quel giorno, con le sue atrocità e perdite incommensurabili, ha rivelato quanto l’antisemitismo e, in particolare, i sentimenti anti-israeliani siano ancora drammaticamente presenti. Di fronte a questa realtà, Michael ha capito con ancora maggiore chiarezza che il suo compito è quello di impedire che l’abominio del passato e del presente venga dimenticato.
Nel 2002, durante la Giornata della Memoria, Michael ha acceso una delle sei torce al Yad Vashem, simbolo del suo impegno nel ricordare milioni di vite spezzate. Il suo volto, in quell’occasione, esprimeva tutta l’emozione di chi porta sulle spalle la storia di un mondo che non deve mai dimenticare. «Il perdono non è per chi ti ha fatto del male, ma per te stesso, per liberarti dal passato», ha spesso detto Michael. Le sue parole sono oggi un richiamo forte alla memoria storica, affinché il dolore non venga mai dimenticato e perché l’umanità impari dalle atrocità del passato.
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Michael Urich – Testimonianza di un sopravvissuto della Shoah