Saul Bellow, un documentario svela la personalità dell’autore di “Hezog” che rifiutava la definizione di “scrittore ebreo”

di Roberto Zadik

Personalità irrequieta e spietato analista delle contraddizioni dell’America, fra gli anni ’60 e gli anni ’90, e delle fragilità dell’uomo contemporaneo, Solomon Bellows, questo il suo vero nome poi americanizzato in Saul Bellow, è stato un pilastro della letteratura americana.

Lo scrittore è passato alla storia per opere corrosive e fortemente intimiste come Herzog, del 1964, ed Il dono di Humboldt, ispirato alla figura di Delmore Schwartz “mentore” della rockstar Lou Reed, che gli è valso il Premio Nobel per la Letteratura nel 1976. Nonostante molti suoi personaggi fossero profondamente ebrei, da spirito ribelle qual era detestava di essere relegato a semplice “scrittore ebreo”; alla sua figura complessa e stimolante e alla sua tormentata identità ebraica è stata dedicata la prima puntata della nuova serie tv American Masters, riguardante i grandi della letteratura americana.

Ne parla un interessante articolo, pubblicato dal Times of Israel venerdì 16 dicembre e firmato da Gabe Friedman.

Il documentario, intitolato Le avventure di Saul Bellow, andato in onda lunedì 12 dicembre sull’emittente americana PBS , diretto dall’israeliano Asaf Galay, propone una serie di testimonianze prestigiose raccolte in tre anni di lavoro, dal 2016 al 2019.

Sorprese e rarità su Bellow vengono alla luce, a cominciare da una delle ultime interviste rilasciate dal grande scrittore Philip Roth, prima della sua scomparsa nel 2018; ne rivela una serie di curiosità letterarie e caratteriali. Bellow, nato nella regione canadese francofona del Quebec nell’estate del 1915 da genitori ebrei lituani duramente perseguitati in patria, emigrò nel 1924 con la famiglia a Chicago; visse una vita intensa sia a livello professionale, acclamato come uno dei più grandi letterati americani del secondo Novecento, sia nel privato con cinque matrimoni e quattro figli.

Ma quale fu la sua identità ebraica e quale il suo rapporto con Israele? Fra i vari aspetti, il filmato di Galay si occupa anche di questo, evidenziando che lo scrittore, scomparso il 5 aprile 2005 poco prima del suo novantesimo compleanno, fosse dominato da un “perenne senso di sradicamento” riguardo a qualsiasi nazionalità, essendo figlio di immigrati, catapultati dall’ex Urss, prima nel Canada francofono e poi negli Usa, essendo fortunatamente in grado di parlare correntemente yiddish, francese e inglese.

Ne emerge il ritratto, come evidenzia l’articolo, di “un importante intellettuale ebreo molto apprezzato dalle comunità americane” anche se il suo atteggiamento verso Israele fu spesso molto contraddittorio; infatti spesso si definiva “prima americano e poi ebreo” nonostante sua madre, morta nel 1933, fosse molto religiosa.

Molto segnato da quanto vissuto dai suoi genitori nell’ex Urss, dall’antisemitismo e dal Regime Comunista che, come ricorda l’articolo di Gabe Friedman, “impediva di praticare l’ebraismo pubblicamente ostacolando qualsiasi emigrazione”, Bellow sottolineava, in varie lettere spedite negli anni al prestigioso New York Times, la brutalità del Regime e di come “nel massacro degli scrittori di lingua Yiddish il governo sovietico non si preoccupasse affatto dei diritti umani” invocando solidarietà, riguardo agli ebrei dell’Unione Sovietica. Invio molte  lettere anche ad altre testate come il Times, nel 1965 e nel 1969.

In merito alle idee politiche dello scrittore, l’articolo sottolinea come molto più complesso fosse il suo atteggiamento verso Israele. Estremamente arguto e spiritoso in una intervista disse “se volete che tutti vi vogliano bene evitate di discutere di politica israeliana”. Nonostante questo egli conosceva bene la politica dello Stato ebraico e, nel 1974, difese Israele con tale veemenza da invocare il boicottaggio dell’UNESCO in seguito alle aspre critiche antisraeliane espresse dall’organismo internazionale.

Nel 1984 egli volle incontrare Shimon Peres, allora Primo Ministro, quando andò in visita negli Usa anche se, altre volte, fu molto critico in questo campo ; ad esempio espresse la propria indignazione, nel 1979, riguardo all’espansione degli insediamenti israeliani nel West Bank.

L’articolo mette in luce i vari riconoscimenti da lui ricevuti nella sua lunga carriera di autore affermato, dal National Book Award al Premio Pulitzer, fino al Nobel nel 1976 ed il suo grande successo, anche in Israele, con la traduzione in ebraico del suo romanzo Il Pianeta di Sammler del 1971. In tema della propria identità ebraica, in conclusione, l’articolo ricorda come, dopo la sua scomparsa, il sito del New York Jewish Week l’abbia definito come “un gigante letterario che sfuggiva alla definizione di scrittore ebreo anche se, uno dei suoi primi racconti del 1944, intitolato La vittima, si focalizzava sul tema dell’antisemitismo con personaggi che parlavano Yiddish e russo”.

Elogiandone la profonda sensibilità e la vena introspettiva e filosofica, il testo, citando quanto affermato dal romanziere John Clayton, evidenzia come “nessun grande scrittore vuole essere rinchiuso in uno stereotipo, quindi nemmeno Saul Bellow”. Clayton aggiunge che “nonostante questo, egli fu profondamente ebreo, non solo per nascita, ma anche per la sensibilità ebraica che caratterizza la sua opera”.

 

In alto: un frame del docu-film “The Adventures of Saul Bellow” di Asaf Galay