di Nathan Greppi
Con il suo film Train de vie, nel 1998, ha saputo trattare in maniera ironica ma rispettosa un argomento drammatico come la Shoah; con Vai e vivrai, nel 2005, ha raccontato il salvataggio degli ebrei etiopi e la loro fuga in Israele; e nel suo Il concerto, uscito nel 2009 e che gli è valso la candidatura al Golden Globe per il Miglior Film Straniero, si parla anche della discriminazione degli ebrei in Unione Sovietica.
Nel corso della sua carriera, il regista Radu Mihăileanu ha saputo trattare in maniera audace e controcorrente svariate tematiche storiche, politiche e sociali. 65 anni, nato e cresciuto in Romania da genitori ebrei, dopo un breve periodo in Israele dai primi anni ’80 vive in Francia. Nel corso del tempo ha vinto diversi premi per i suoi film, tra cui due David di Donatello e due Premi César (gli Oscar francesi).
Mihăileanu è venuto in Italia, dove è stato presidente della giuria alla XXVII edizione del Tertio Millennio Film Fest, tenutosi a Roma dal 14 al 18 novembre e incentrato sul dialogo interreligioso e interculturale. Vicino al Cinema Nuovo Olimpia, dove si teneva la maggior parte degli incontri, lo abbiamo incontrato per un’intervista.
Quando ha capito di voler diventare un regista?
È successo molto tardi, quando sono emigrato in Francia. Prima volevo fare teatro, non cinema, e già in Romania avevo recitato in yiddish nel Teatro Ebraico di Bucarest. Visto che all’epoca non c’erano scuole di regia, quando sono emigrato anche per fuggire dalla dittatura sono andato a studiare cinema. Da allora, non sono più tornato al teatro. Pur amando già prima il cinema, mai avrei immaginato che ci avrei lavorato.
In “Train de vie”, ha saputo narrare con umorismo la Shoah. Come può l’umorismo raccontare l’orrore?
Per noi ebrei, l’umorismo è una sorta di tragedia. Questo perché nella nostra storia, abbiamo sempre dovuto soffrire e scappare, abbiamo subito torture e pogrom, e siamo sopravvissuti anche grazie allo humor. Questo ci ha tenuti in vita o, come disse Elie Wiesel, ci ha impedito di impazzire completamente. Per me, fare un film con ironia o umorismo non lo rende meno tragico. La Shoah sarà sempre una tragedia, ma questo può essere un modo per raccontarla alle generazioni più giovani, che non vogliono più vedere film tristi. E allora gli porto questa storia in maniera umoristica, perché capiscano.
All’epoca in cui uscì il film, girai il mondo per presentarlo. In particolare, feci un bellissimo viaggio in Germania con mio padre, che era stato deportato durante la Shoah, e incontrammo molti giovani. Fu una grande esperienza, perché capirono il messaggio del film. Perciò, io non rido della Shoah, ma ne piango in un altro modo.
In “Vai e vivrai”, ha raccontato la fuga degli ebrei etiopi in Israele e la loro difficile integrazione. Quanto è attuale oggi l’argomento?
Il film parla di molte cose, una delle quali è l’eroica operazione con cui Israele li ha portati a casa, l’Operazione Mosé, cui seguì l’Operazione Salomone. Dopodiché, alcuni in Israele, soprattutto i più religiosi, non volevano accettarli. Questo perché non li consideravano davvero ebrei, anche per le loro tradizioni: essendosi separati dal resto del mondo ebraico prima della distruzione del Secondo Tempio, hanno mantenuto usanze più antiche, una delle quali prevede che l’identità ebraica venga trasmessa ai figli dal padre invece che dalla madre. Ciò li ha messi in contrasto con il Gran Rabbinato d’Israele. Poi, ci sono certi razzisti convinti che un ebreo non può essere nero, il che è stupido.
Oggi però la loro situazione è molto migliorata: ci sono deputati etiopi nella Knesset, e nel 2004 ho conosciuto una giovane ebrea etiope, all’epoca studentessa, che circa tre anni fa ho rincontrato: Pnina Tamano-Shata, divenuta in quel momento Ministro dell’Immigrazione in Israele e venuta in visita a Parigi. Non solo sono bravi soldati, ma alcuni di loro sono diventati medici, avvocati, professori universitari. Ci sono ancora problemi, ma piano piano si stanno integrando in Israele, paese che amano.
Che cos’è l’ebraismo per lei?
Non sono religioso, almeno nel senso tradizionale del termine. I miei genitori non erano praticanti, mentre i miei nonni invece sì. Mia nonna viveva in casa con noi, per cui l’ho sempre vista cucinare pasti kasher, celebrare le feste ebraiche, osservare lo Shabbat. Ho vissuto l’ebraismo a teatro, quand’ero un attore, perché interpretavamo sempre scene di vita ebraica in yiddish. Religiosamente mi considero agnostico, non sono molto praticante.
Quello che invece mi lega molto al mio essere ebreo sono le storie del Tanakh, perché sono le mie storie. Sento che noi ebrei siamo tutti legati a queste storie e agli insegnamenti del Talmud, che ci indicano come comportarci, pensare e relazionarci con gli altri.
Nel 2018, era tra gli oltre 300 firmatari di un appello contro l’ondata di antisemitismo in Francia veicolata dall’islamismo radicale. Com’è la situazione per gli ebrei in Francia?
È molto difficile, perché una certa stupidità sta riemergendo. Ma non dobbiamo confondere gli islamisti con i musulmani: tutti i miei amici ebrei in Francia hanno anche amici arabi, ai quali siamo legati da una storia comune, perché siamo tutti figli e figlie di Abramo. Ma gli islamisti no, loro sono estremisti e vogliono ucciderci. Adesso l’odio sta diventando sempre più intenso in Francia, con la guerra tra Israele e Hamas. È così in tutto il mondo, ma in Francia è molto forte, perché abbiamo molte persone che vengono da Marocco, Tunisia, Algeria, e si sentono vicini ai palestinesi. Anch’io sono vicino ai palestinesi come popolo, ma sono contro Hamas, Hezbollah, l’Iran e tutti i terroristi e gli estremisti che vogliono cancellare Israele e il popolo ebraico dalle mappe. Io e la mia famiglia stiamo vivendo nuovamente quello che mio padre e mia madre hanno vissuto negli anni ’30 e ’40, e ciò non dovrebbe essere accettabile ai giorni nostri.
Pertanto, dobbiamo combattere tutto ciò, ma farlo con amore, perché l’odio genera solo altro odio. Dobbiamo creare per i nostri figli un mondo in cui bambini ebrei e musulmani possano vivere in pace e capirsi a vicenda.
Il Tertio Millennio Film Fest parla anche di dialogo interreligioso. In questo periodo di guerra, quanto è importante tale dialogo?
È più importante che mai. Ci sono troppe persone che si odiano tra di loro, non solo ebrei. Succede anche a causa della crisi economica, del Covid, e le persone sentono il bisogno di odiare. Dobbiamo cercare di costruire ponti anziché distruggerli, e dobbiamo farlo perché siamo responsabili per le future generazioni.
All’ultimo Festival di Venezia, ha preso posizione a favore della battaglia per i diritti degli autori, con il manifesto “Déclaration des Cinéastes”. Cosa può raccontarci al riguardo?
Oggi, nell’epoca della globalizzazione, degli algoritmi e dell’intelligenza artificiale, le grandi piattaforme digitali usano le macchine per imporci quali film e serie la gente vuole vedere. Ma le macchine sono stupide, non hanno una visione, creano sempre le stesse cose e non possono immaginare ciò che ancora non esiste.
Per le grandi aziende conta solo inseguire le mode. Per esempio, in Italia Netflix fa solo serie sulla mafia, perché per il loro pubblico in Italia ci sono solo mafiosi, non riescono a pensare ad altre storie. E minacciano di fare a meno degli sceneggiatori, sostituendoli con ChatGPT, se non scrivono ciò che va di moda. Se ciò accadesse, sarebbe la fine dell’arte e della nostra civiltà.
Un consiglio che darebbe ad un giovane aspirante regista?
Essere te stesso. Non copiare gli altri. Va sempre bene guardare le opere di altri artisti per cercare degli spunti, ma la vera ispirazione la devi trovare dentro di te. Io faccio sempre ogni mio film come se fosse l’ultimo, in modo da metterci tutto me stesso. Questo è il consiglio che mi sento di dare.