Mi chiamo Rossana Luzzatto, ho 87 anni. E non sono eterna

di Rossana Luzzatto

Per questo, il Giorno della Memoria (rimarrà, sarà monito, svanirà con gli anni, domande tremende cui non è dato oggi rispondere) sento l’urgenza di raccontare una piccola testimonianza, la mia. Alla fin fine è terminata bene, come si dice, giacché sono qui, ma la mia famiglia e io abbiamo dovuto attraversare non proprio l’inferno, ma quasi.

La mia famiglia era laica e ben integrata nel tessuto economico e sociale italiano. A parte mia madre, bella,  brillante, diplomata al conservatorio come pianista,  che teneva quello che si chiamava allora “salotto letterario” specie a Roma, dove viveva alternandosi a Milano, in cui risiedevano gli altri della mia famiglia, tutti lavoravano. Mia nonna era insegnante (mio nonno era mancato da tempo), mio padre rappresentava una ditta di prodotti chimici, le mie due zie paterne, entrambe nubili, erano una farmacista, Elsa,  l’altra parimenti insegnante, Jolanda. Per inciso, a proposito di quest’ultima, ho il dovere di ringraziare il professor Gianguido Piazza, con cui mi sono sentita più volte,  che si è dato cura di effettuare pazienti e preziose ricerche riguardo gli insegnanti ebrei espulsi nel 1938 da alcuni istituti scolastici, poi i raccolte in un libro, con il sostegno anche del CDEC.  Tra questi il ginnasio liceo Parini,  dove appunto insegnava mia zia, una dei tre espulsi.

Come lapidariamente disse Primo Levi, “Mi accorsi di essere ebreo con la promulgazioni delle Leggi razziali”. Regio decreto del 5 settembre 1938, riguardo alla “difesa della razza ” nella scuola, 7 settembre in generale.

 

Oggi  abbiamo tutti gli strumenti conoscitivi per informarci su quanto sia stato il fascismo. Tuttavia almeno la marcia su Roma ( 1922) avrebbe dovuto essere un campanello di allarme. Mi stupisco che la mia famiglia, e in genere che tutti o quasi  gli ebrei italiani, abbiano potuto continuare a sentirsi “italiani”, serenamente. Ma così fu.

I miei, tutti, persero il lavoro. Nonna e zia espulse dalle scuole, zia cancellata dall’albo dei farmacisti, padre licenziato in tronco. Peraltro in molti ci aiutarono. Fu venduta la splendida villetta, con giardino e frutteto, tuttora esistente, in cui da decenni si abitava, e si acquistò un piccolo appartamento. Grazie  agli stessi allievi e ai loro genitori la zia Jolanda potè svolgere molte lezioni private. In più, la casa editrice Antonio Vallardi, per la quale già da tempo collaborava, con nome fittizio continuò a rivolgersi a lei ( per la precisione, era una emerita latinista). La zia Elsa, che oltre alla laurea in farmacia aveva quella in chimica, passò nascostamente a occuparsi di appretti in ambito tessile.

Arriviamo all’8 settembre 1943. Nonna, zie e io eravamo in villeggiatura a Milano Marittima. I miei genitori erano a Roma. Per conoscenze non ben precisate (a me venne detto in Vaticano), mio padre era venuto a sapere, già in anticipo, sul proclama di armistizio di Badoglio, giacché già il 3 era stato firmato proprio l’armistizio nel paesino siciliano di Cassibile,  quanto sarebbe avvenuto, cioè la feroce repressione tedesca.

E riuscì a farcelo sapere, e a consigliarci di recarci ad Assisi, che era stata proclamata città santa, e come tale al riparo dall’occupazione delle truppe germaniche. Questo fu dunque il primo spostamento, con animo ancora sereno. Purtroppo per pochi giorni. Il proprietario dell’albergo, Hotel Savoia (oggi Hotel Windsor Savoia) aveva fatto dipingere sul tetto una grande croce bianca, per farlo sembrare un ospedale, e dunque al riparo dai bombardamenti. In effetti non venne bombardato, al contrario piacque al comandante Muller, che lo scelse come sede del proprio quartier generale.

Ci mancò quasi tutto, in quei due anni che trascorsero sino al 25 aprile, ma incredibilmente non solo nessuno ci tradì, bensì ci salvarono molti antifascisti. A cominciare dal proprietario dell’Hotel Savoia. Come arrivò Muller, ci nascose  nel locale motore dell’ascensore, tutte e quattro (ricordo, una signora abbastanza anziana, due donne quarantenni, una bambina di meno di 7 anni: per inciso, con un gruppo così formato l’opzione Svizzera era impensabile). Nascose altresì il nostro bagaglio, che successivamente si incaricò di far custodire dalle suore del convento di Santa Chiara, e appena fu l’alba scappammo.

Non ricordo esattamente, ma presumo che mentre eravamo ad Assisi nostri carissimi amici, che operavano nella Resistenza, si fossero attivati per farci pervenire carte d’identità false. Una la conservo; il nuovo cognome era Ornano, meridionali. Perché i miei abbiano scelto come meta successiva Canzo, paesino di 5000 abitanti in Brianza, lo ignoro, ma presumo che lo ritenessero del tutto insignificante per le truppe tedesche. Comunque è lì che ci recammo. Il viaggio, naturalmente in treno,  fu interminabile. A Canzo fu scelta una modesta locanda; ci sentivamo al sicuro. Ma anche lì arrivarono i tedeschi. E, in mezzo a tutto, di nuovo fortuna. Perché la proprietaria del nostro alloggio, che dal nostro accento aveva intuito perfettamente che le carte di identità erano false e che per tutta probabilità eravamo ebrei, nottetempo riforniva di viveri i partigiani della zona. La sua locanda fu requisita, e lì era impossibile nasconderci. Per tutta la giornata e sino a sera tarda fummo costrette a rimanere a stretto contatto con i tedeschi. Proprio Canzo fu testimone di un momento tra i più drammatici. Dopo cena, cui non ci fu possibile sottrarci, alcuni soldati tedeschi “Bella bambina”, mi obbligarono a bere e a ballare sul tavolo. Poi la domanda “Come ti chiami?” Credo che i miei in quel momento pensarono, è la fine. Come io sia riuscita a non tradirmi, a ricordare il nuovo nome e cognome, mi resta impossibile comprenderlo. Ma così fu.

Nuovamente si scappò. La zia Jolanda, che prima di passare al Parini aveva insegnato a Gorgonzola, cittadina oggi inserita nella città metropolitana di Milano, e che aveva mantenuto ottimi rapporti con la preside, pensò di rivolgersi a lei. Così ci portammo appunto a Gorgonzola. Eravamo però ormai più che impauriti. Per assicurarci la maggior protezione possibile la preside, signora Bignami, convinse due anziani coniugi, a  lei molto devoti, che gestivano una modestissima osteria, a far innalzare una parete divisoria in legno, sul fondo del loro locale, e lì ci nascondemmo. In queste condizioni così disagiate, ci sentivamo al sicuro.

Ma così non fu, in qualche modo il nascondiglio fu scoperto, non ricordo come. Fu a questo punto che intervenne la zia Elsa, la quale decise che forse sarebbe stato meglio rifugiarci a Milano; nei piccoli centri era più facile individuarci.

A Milano viveva una nostra lontana parente, Ida Carpi, molto povera, vedova e con una figlia gravemente malata, che per sopravvivere era rimasta in una casa quasi interamente distrutta dai bombardamenti e pertanto dichiarata dalle autorità preposte inabitabile. Con tanto di cartello che ne attestava l’inagibilità. Affittava alcune stanze a individui di dubbia professione che, ovviamente per motivi assai diversi dai nostri, desideravano per così dire la clandestinità. È da dire che rischiava molto. Ci rinchiuse in una camera, con l’obbligo in pratica di non muoverci e non parlare. Fu la fame e, quando giunse l’inverno, il gelo. Il tetto della nostra stanza era in gran parte distrutto e pioveva dentro. Qualche volta mi fece uscire, spiegando che ero una sua nipote venuta a trovarla. Chi invece era costretta a uscire, in piena notte, era la zia Elsa; l’altra zia, cagionevole di salute, ebbe anche un  serio attacco cardiaco; morì a poco più di 60 anni. Si recava a piedi a Porta Ticinese, all’epoca probabilmente la zona più malfamata di Milano, a cercare cibo ma soprattutto un po’ di carbone (rubato dalle ferrovie), con cui alimentare una stufetta di cui disponevamo. Ogni volta si aspettava una botta in testa e di venire derubata di quel poco di denaro rimastoci, oppure di essere denunciata. Non si verificò mai. Più tardi venimmo a sapere che l‘eroico impiegato dell’anagrafe che aveva compilato le nostre carte d’identità (uno dei tanti eroi poco conosciuti o del tutto  ignoti di quell’epoca, ai quali il più delle volte non venne mai tributato il meritato onore) era stato scoperto e sotto tortura aveva fornito l’elenco delle carte false da lui redatte. Dunque eravamo tra l’altro prive di alcun documento, ammesso che servissero.

Bisogna intendersi su cosa sia significato  per noi il  “cibo”. Carne, uova, formaggio,  mai, se non  quel poco  che talvolta amici carissimi riuscivano faticosamente a farci avere. D’altronde, mentre si viveva abbastanza bene nelle campagne, a Milano prevaleva la fame. Per noi  le  carrube erano una festa; una misteriosa polverina gialla, mescolata all’acqua, faceva le funzioni dell’olio.

 

 

 

 

E poi i bombardamenti. È ben noto che Milano fu la città dell’Italia settentrionale  che subì il maggior numero di attacchi aerei. Ogni volta, la casa, quei quattro muri che ancora rimanevano, tremavano da far pensare ogni istante a un crollo totale. Io sobbalzavo nel letto, a volte senza nemmeno svegliarmi.

 

Comunque arrivò il 25 aprile 1945, la liberazione.

Fu solo nel 1945 che vidi i  miei genitori.

Parlare di felicità è riduttivo. Mio padre era rimasto relativamente al sicuro a Roma; mia madre, che peraltro non era ebrea, improvvisamente scomparve, nel 1943. Evaporata nell’aria. Mio padre, che l’adorava, cercò in ogni modo possibile di avere sue notizie: tramite il Vaticano, tramite la Croce Rossa. Si fece persino fingere cameriere e passò a servire alla mensa  degli ufficiali tedeschi.

Tutto inutile.

Mio nonno materno, ravennate, era di nota famiglia socialista; forse amico di Giacomo Matteotti, ne condivideva comunque le idee. Assassinato Matteotti il 10 giugno 1924, poco dopo fu la volta di mio nonno, il cui corpo venne lasciato lungamente nella piazza principale, come monito. Mia nonna morì poco dopo. Mia madre, Andreina Gelosi,  si trovò così, adolescente, improvvisamente orfana. Fu nominato un tutore, il quale consigliò, per la sua salvaguardia, di rifugiarsi a Londra. E così avvenne. E così fu che per tutta la  vita la sua patria rimase la Gran Bretagna.

Una volta divenuta maggiorenne, mia madre tornò in Italia, dove scoprì che tutti i beni della sua famiglia le erano  stati sottratti, probabilmente proprio dallo stesso tutore. Cominciò a dare lezioni di inglese; conobbe mio padre, che necessitava di una segretaria proprio con conoscenze di  inglese. In breve, dopo poco tempo si sposarono. E nacqui io.

Ritorno alla improvvisa e incomprensibile scomparsa di mio madre. Intimamente inglese com’era, riuscì a mettersi in contatto con l’intelligence britannica e passò al controspionaggio. Scoperta dai tedeschi, fu rapita e portata come prigioniera politica nelle carceri di Berlino. I quasi due anni di prigionia furono probabilmente meno strazianti che non in un lager, ma per certo assolutamente spaventosi. Mia madre me ne parlò pochissimo, quasi nulla, come del resto mantenne uno stretto riserbo sulla sua famiglia. Comunque so che il momento di peggiore, quando ritenne che, insieme ai suoi compagni di prigionia, sarebbe stata giustiziata, fu il 20 luglio 1944, a seguito del fallito attentato a Hitler. Come è noto, furono i sovietici a liberare Berlino, che capitolò il successivo 2 maggio.

Famiglia riunita, reintegrate nonna e zie nella scuola e farmacia, ripresa con successo l’attività di mio padre.

Ma qualche ferita fece fatica a rimarginarsi in me. In sintesi mi furono rubati  serenità, anni di gioco, la compagnia di bambini, una scuola normale, in cambio di fughe e di  stenti. Questo creò negli anni successivi traumi, problemi psicologici di socializzazione non di poco conto, a partire dalla difficoltà a relazionarmi con gli stessi compagni di classe. Per fortuna non mi mancò l’istruzione. In clandestinità nonna e zie occuparono nell’insegnamento tutto l’enorme tempo disponibile. Finii con l’avere una cultura nettamente superiore a quella dei bambini della mia età. Così alla fine della guerra, quando fu riaperta la scuola ebraica di Via Eupili, dove naturalmente mi iscrissi (e dove riprese a insegnare, unitamente che al Parini, la zia Jolanda) e vi rimasi sino al conseguimento dell’esame di maturità, gli insegnanti non sapevano bene in quale classe iscrivermi. Avevo le competenze della scuola media, ma l’età di 9 anni. Salomonicamente, si fece a metà: la quinta elementare.