Il Nobel a Louise Glück: la vita sul filo dell’anima

di Ilaria Ester Ramazzotti

Un asciutto racconto dell’Io, della solitudine e delle dolorose relazioni famigliari. Oltre ogni retorica, oltre l’enfasi e le correnti culturali. Una poesia autobiografica, dall’anoressia  alla psicoanalisi, al retaggio ebraico. Che diventa universale

“Guardiamo il mondo una volta, da piccoli. / Il resto è memoria”. A dircelo è Louise Elisabeth Glück, premio Nobel per la Letteratura 2020. I versi sono tratti da Meadowlands, una delle sue dodici raccolte di poesia. Nata a New York nel 1943 in una famiglia ebraica di origine ungherese, vive a Cambridge, in Massachusetts, e insegna alla Yale University di New Haven, in Connecticut.

Le visioni e i traumi dell’infanzia, le relazioni famigliari e di coppia, l’abbandono, il dolore, la ferita di vivere guardando scorrere un senso di inemendabile perdita; lo srotolarsi del tempo nel suo passare sull’epidermide dei giorni. Questi i temi che emergono con evidenza dalle sue righe, dove è centrale il suo riferirsi al mito greco e alla filigrana di un vissuto ebraico come tela di fondo della propria esperienza. Echi profondi delle proprie radici ebraiche e di una diaspora europea polverizzata dalla Seconda Guerra Mondiale. Poco conosciuta in Italia, in patria ha ottenuto prestigiosi riconoscimenti come il Premio Pulitzer nel 1993, per l’opera Wild Iris (L’Iris selvatico), il National Book Award nel 2014 per Faithful and Virtuous Night e l’onorificenza Poet Laureate nel 2003. L’iris selvatico, edita in Italia da Giano, è una fra le poche traduzioni in italiano dei suoi lavori, insieme alla raccolta Averno, pubblicata da Dante & Descartes. È altresì citata in recenti antologie, fra cui Nuovi poeti americani, edita da Einaudi nel 2006.

«Sono felicissima per l’attribuzione del Nobel a Louise Glück – spiega la poetessa Giovanna Rosadini, ex editor della prestigiosa collana bianca di poesia Einaudi, nonché conoscitrice dell’opera della Glück-, perché è un’autrice dal livello qualitativo incontestabile, è raffinatissima nonostante il suo stile volutamente semplice, diretto, che punta al non-detto, al dire con poche parole essenziali». Secondo Elisa Biagini, curatrice dell’antologia dei Nuovi poeti americani Einaudi, la sua scrittura è un incrocio fra la poesia di Emily Dickinson e Walt Whitman, che sono i due padri della poesia americana contemporanea, costituendo una sorta di incontro fra «l’anelito metafisico della Dickinson e la pulsione più concreta e terrena di Whitman».

L’abbraccio di cielo e terra, la coriacea concretezza del quotidiano che si eleva e si affina nella vertigine di una dimensione superiore. «Credo che la voce della Glück sia talmente definita da potersi ritenere al di sopra delle correnti – aggiunge -: come tutte le voci uniche e speciali, non è riconducibile a linee particolari». Definirla poesia-confessione (come qualcuno ha detto), ossia appartenente alla corrente poetica del confessionalismo, risulta quindi fuorviante e riduttivo. La sua penna dà luce a «uno stile estremamente preciso, a una comunicazione essenziale che elimina il superfluo, sfronda qualsiasi tipo di possibilità enfatica o retorica. In genere, il suo singolo verso coincide con l’enunciato, e da questo punto di vista la sua è una poesia facile da approcciare, piuttosto immediata anche per il lettore comune. Una poesia che non spaventa, ma che contiene in sé un invito alla lettura, per vocazione e per volontà esplicita dell’autrice».

Un asciutto racconto dell’Io, della solitudine e delle dolorose relazioni famigliari, ma anche della meraviglia della Creazione. Una narrazione in cui trova spazio la sua giovinezza di ragazza anoressica che lascia, a un dato momento, gli studi universitari per dedicarsi alla psicoanalisi. Eppure, il riconoscimento suggellatole dall’Accademia di Svezia ha scatenato anche qualche polemica. Poiché « è un’accademica, pluripremiata e bianca, sono apparse sui social alcune critiche che vedono il suo Nobel come un premio all’establishment letterario». Discussioni e dissensi circa i temi intimisti della Glück, temi in controtendenza rispetto a quelli sociali oggi in voga nella ‘poesia civile’, come il razzismo, il cambiamento climatico, l’immigrazione. «Glück tratta temi marcatamente sociali ma solo nella sua produzione saggistica – ci riferisce Rosadini -, mentre in poesia ha un approccio di tipo autobiografico». Tuttavia le critiche scaturite «lasciano il tempo che trovano perché la sua è una poesia di indiscutibile livello artistico. Se i suoi temi sono intimi, apparentemente personali, è anche vero che il personale è politico. Come dice una delle più importanti poetesse italiane contemporanee, Maria Grazia Calandrone, proprio perché la poesia nasce come poesia d’amore è anche politica: temi personali legati ai sentimenti incidono profondamente sul contesto sociale». L’intimismo esistenziale della Glück diventa allora universale, come sostiene l’Accademia svedese nella motivazione del Nobel: «Per la sua inconfondibile voce poetica che con austera bellezza rende universale l’esistenza individuale».

«C’è chi la considera una poetessa cupa – spiega Rosadini -, ma in realtà possiede una componente visionaria molto forte. Nella raccolta L’Iris selvatico dà voce a tre figure: ai fiori, a un giardiniere e a un’entità soprannaturale, trascendente, divina e presente. E c’è chi vede in questa figura un riferimento al Dio ebraico. Poiché la sua formazione è ebraica e lo è il suo orizzonte storico e il passato famigliare, ritengo pertinente una lettura di questo tipo». Tuttavia, «non si trovano in lei riferimenti biblici puntuali, il suo legame col mondo biblico è sfumato». Il Dio insoddisfatto e rassegnato della Glück, in un giardino che è forse un flebile riflesso dell’Eden, così proferisce alle sue deludenti creature: “Non state soffrendo perché vi siete toccati / ma perché siete nati, / perché richiedevate vita / separata da me”. E annuncia: “Mie povere ispirate / creazioni, siete /distrazioni, in ultimo, / puri inceppi; siete / alla fine troppo poco simili a me / per piacermi”. Il critico letterario e saggista Massimo Bacigalupo parla a questo proposito di una «teologia in giardino».

Una eco ebraica si scorge inoltre nel titolo della raccolta uscita nel 1990, Ararat, come il monte dove si posa l’Arca di Noè dopo il diluvio. «Definito dal New York Times fra i libri di poesia americana più intensi e pieni di dolore che siano mai stati pubblicati negli ultimi trent’anni, parla in realtà della morte del padre della poetessa». Ma «per la Glück come per altri grandi autori ebrei americani, fra cui Philip Roth, anche laddove non sono riscontrabili fili diretti, il legame con l’ebraismo è imprescindibile e implicito, trasuda da ogni loro pagina come l’aria che si respira e di cui non ci si accorge».
Un’individualità che acquisisce universalità anche attraverso i miti del mondo greco. «Nella raccolta Averno, la Glück si rifà al mito di Demetra e Persefone per riflettere sul legame fra madre e figlia nonché sulla paura per il tempo che passa, per l’invecchiamento. Nella raccolta non tradotta in italiano, pubblicata nel 1997, Meadowlands, si rifà invece alle figure di Ulisse e Penelope per una riflessione sul matrimonio e sulla natura dell’amore». «Più conosciuta è Vita Nova, del 1999, ispirata dalla sua esperienza personale, dall’abbandono, dalla perdita».

Imprescindibile, nella prospettiva di Louise Glück, resta anche il dolore quale «parte dell’esperienza umana, che bisogna mettere a frutto, elaborare e trasformare in qualcosa di accrescitivo nelle nostre vite». “In fondo al mio dolore / c’era una porta”, ci svela ancora in L’iris selvatico. «Spesso, a me come autrice viene chiesto a che cosa serva la poesia – conclude Giovanna Rosadini -; rispondo con qualcosa che si riallaccia all’esperienza della Glück: i poeti sono i rabdomanti dell’inconscio, sono quelli che trovano le parole per tutti, esprimendo sentimenti personali che il poeta è in grado di tradurre in maniera universale. Il lettore, attraverso il contatto con i versi di un vero autore, sente espresso il suo mondo interiore». Così, “ogni cosa / ritorna dall’oblio, ritorna /per trovare una voce: / dal centro della mia vita è uscita / una grande fontana, profonde / ombre blu sull’azzurro del mare”.