Cosmopolita e all’avanguardia, storia di Augusta che scrisse e regnò nei salotti di Praga e Berlino

di Roberta Ascarelli

Vita e fortuna di Auguste Hauschner, scrittrice e madrina  della letteratura ebraico-praghese, animatrice di un vivace  e raffinato salotto intellettuale a Berlino. Venerata da Max Brod, fu generosa mecenate di scrittori scapigliati e squattrinati

 

Nel libro dedicato al Circolo di Praga, storia di una giovinezza e di un mito letterario, Max Brod parla con affetto e deferenza di una affascinante figura femminile, Auguste Hauschner. Più anziana (era nata nel 1850 a Praga da una facoltosa famiglia ebraica), più ricca e influente dei suoi amici di penna, animava un salotto intellettuale a Berlino sostenendo con generosità scrittori scapigliati e squattrinati. Una “nonna” (addirittura una bisnonna per alcuni) dallo sguardo penetrante, dotata di una intelligenza viva e tagliente, di modi aristocratici e di tempra da combattente.

Al mondo della sua giovinezza praghese Auguste Hauschner rimane a lungo legata: “È una fortuna – scriveva Hebbel a metà Ottocento – essere nato in una tale città. Giacché quando questa immensa creatura, con i suoi enigmi e i suoi portenti ti ha cullato sin dalla prima infanzia, allora, l’influsso si prolunga per tutta la vita”. Le resta vicina nelle amicizie, nelle emozioni e nelle fantasie, anche se, come molti israeliti d’Oriente, si sente attratta dalla Germania; la idealizzazione del Paese di Goethe e Schiller non le impedisce comunque di condannare la politica reazionaria e oppressiva degli Hohenzollern dopo l’Unità: tra i suoi principali interlocutori troviamo così giornalisti agguerriti, scrittori di orientamento liberale, intellettuali radicali, rivoluzionari a volte e donne in lotta per l’emancipazione come Clara Viebig, Hedwig Dohm e Gabriele Reuter.
Rimasta vedova, inizia a scrivere timidamente nel 1895 novelle e romanzi affacciandosi nel segno di Zola alla fucina del tardo naturalismo tedesco e collaborando a due riviste “moderne”: Literarische Echo e, soprattutto, Die Zukunft di Maximilian Harden, impegnata su temi sociali e politici ed estremamente critica verso l’establishment del giovane Stato.

Solo raramente – come nelle novelle Der Versöhnungstag (Il giorno di Yom Kippur, 1918) e Die Siedelung (L’insediamento, 1918) – affronta temi ebraici. Il suo ebraismo è tiepido, la sua avversione per il sionismo è decisa, inoltre, nell’albero genealogico (che condivide con il cugino Fritz Mauthner, filosofo e scrittore che non nasconde i suoi antenati frankisti) ha faglie ereticali e propensioni radicali. Ma a caratterizzarla come ebrea è per lei soprattutto il profilo intellettuale di una europea cosmopolita, pacifista, impegnata per la giustizia e la libertà che la rende una ideale compagna di strada di Stefan Zweig che in Il mondo di ieri si definisce “ebreo, scrittore, umanista e pacifista”.
A tratti nella sua prosa si volge a Praga lasciando emergere ricordi e atmosfere: “L’arte narrativa di Auguste Hauschner è sempre stata più forte, più personale, quando è rimasta radicata nel suolo della sua patria, a Praga”, scrive Gabriela Veselá, ricordando i fortunati romanzi ricchi di spunti autobiografici e di notazioni storiche e sociali: La famiglia Lowositz (1908), poi Rudolf e Camilla (1910) e, infine La morte del leone (1916), un racconto che Castelvecchi ha pubblicato recentemente (con traduzione anticata e interessante introduzione di Thomas Hoehle, pp. 108, 15 euro) offrendo al lettore italiano una prova d’autore di questa scrittrice ormai dimenticata.

Praga come mito letterario
La novella che descrive l’ultimo giorno dell’imperatore Rodolfo II, con un “movimento così inquietante” da provocare – secondo un recensore degli anni Venti – “sogni selvaggi nella notte dopo averlo letto”, ben si incunea nel mito letterario di Praga, considerata città “la cui forza di seduzione è indomabile” scrive Max Brod, costellazione di trasgressione e misticismo che trova nel quartiere ebraico la sua quinta più evocativa:
“Siamo abituati – scrive Angelo Maria Ripellino in Praga magica, – a vedere il ghetto praghese coi filtri dell’espressionismo e soprattutto attraverso le descrizioni di Meyrink che, nel romanzo Der Golem, rese, a detta di Kafka, ‘meravigliosamente’ ‘l’atmosfera dell’antico quartiere ebraico di Praga’. Meyrink fa del ghetto praghese un terreno […] da incubo, una contrada immiserita e larvale, la cui spettralità sembra dominare”.

La morte del leone
In La morte del leone il palazzo e il ghetto avvolgono gran parte delle vicende narrate. È l’inverno del 1611 e una cometa giunge su Praga immergendo la città in una violenta luce rossa. Per l’imperatore Rodolfo II, in lotta con il fratello, è un infausto presagio che nella sua mente sconvolta trova una cupa conferma nella malattia di Mehmet Ali, un meraviglioso esemplare di leone che vive nel palazzo e al quale lo lega una fosca profezia di morte.

Ossessionato da pensieri infausti, cerca aiuto nella magia e interroga alchimisti e astronomi per avere responsi sul suo futuro; tra loro, ultima speranza, il rabbino Löw che, dopo averlo accolto e “stregato” con immagini illusorie, si sottrae alla richiesta di introdurlo ai misteri della Qabbalah. Nella casa del ghetto, l’imperatore vive una passione travolgente per la bella Golde, la figlia adolescente del rabbino che l’imperatore decide di sedurre. Sarà allora la maledizione di rabbi Löw ad accompagnarlo tra pensieri e gesti dissennati verso la morte che puntualmente giunge rapendo, insieme a lui, anche Mehmet Ali.

Nella novella si ritrovano personaggi e atmosfere del Golem, il primo, fortunatissimo, romanzo di Gustav Meyrink del 1915, ma anche delle opere oscure e demoniache di Leppin (1914), Kisch (1915), Brod, che hanno dato vita a una inconfondibile topografia letteraria in cui individualità, tradizioni e scritture finiscono per intrecciarsi in una partitura del sogno e dell’allucinazione.

Ma se si guarda agli anni di questa improvvisa fioritura, l’ombra della Prima guerra mondiale grava nella sua concretezza su ogni pagina: la crisi dell’Impero asburgico, la elaborazione di antiche cittadinanze, la riflessione su tecnica, mistica e violenza, il contrasto tra la modernità e una favolosa tradizione imperiale affiorano per interrogare il senso di quel passato così contraddittorio, mentre l’impero vacilla e le ingiustizie emergono evidenti nella violenza di un conflitto rovinoso.

Nella novella della Hauschner il legame tra tradizione e contemporaneità è particolarmente vivo: i tratti antinaturalistici e magici di Praga si stemperano in un realismo critico e severo. Tutti i personaggi, gli eventi e i luoghi hanno la concretezza della ricerca storica, anche follia e magia vengono interpretati alla luce della scienza contemporanea, con una particolare predilezione per il “giovane” pensiero di Freud. Rodolfo II che si aggira tra le case cadenti del ghetto, cercando di rubare la sua sapienza a Rabbi Löw e minacciando di morte uomini già duramente provati da guerra e povertà, non è un romantico sovrano in cerca di conoscenza, ma un despota sanguinario e squilibrato, a tratti anche ridicolo che, se interroga poteri arcani, è solo per garantirsi il possesso di un trono ormai vacillante sotto il peso dell’infelicità dei sudditi.
Anche nel ghetto gli aspetti esotici ed esoterici sono messi in ombra da temi sociali; scrive la Hauschner: “Nessun fiore. E solo di rado qualche tenda. Ma l’esterno nudo nascondeva un interno caotico, scarti del giorno offerti al miglior prezzo, vestiti smessi, vecchi mobili e strumenti da lavoro dismessi. Quando un raggio di luce penetrava all’interno delle basse camere, andava al luminare un gran numero di teste, dato l’affollamento delle tante famiglie”. Così il mito magico di Rabbi Löw, idealizzato nella saga del Golem, viene oscurato dal sincero e “attuale” pentimento dell’uomo pio per aver abusato del potere concessogli dal Signore pur di placare un potente e per aver svilito il soffio purissimo del respiro divino per compiacere un misero tiranno, come avevano fatto del resto tanti intellettuali tedeschi “rapiti” dallo spirito guerrafondaio del 1914.

E se il leone muore, trascinando con sé Rodolfo (e, in una prospettiva più attuale, l’Impero asburgico), è perché non ha goduto della libertà e dei diritti che erano necessari, a lui come a tutti gli uomini: “Avrei dovuto concedergli prima la libertà – afferma l’imperatore ormai alla fine – Ormai era troppo tardi”.