Badenheim 1939 – Incontro con Aharon Appelfeld

Immaginiamo un bambino di 7 anni biondo, dagli occhi blu, nato in una famiglia dell’alta borghesia della Bucovina, una regione rumena parte dell’impero astroungarico. Immaginiamo che, al sopraggiungere della guerra e dell’invasione tedesca, questo bambino, senza che ne conosca la ragione, venga rinchiuso in un ghetto, assista alla morte della madre per mano dei nazisti, e subisca la deportazione in un campo di concentramento ucraino insieme al padre, dal quale viene immediatamente separato. Immaginiamo che, in qualche modo, egli riesca a fuggire, ed a sopravvivere così, in continua fuga, costretto a nascondersi e a nascondere la sua identità senza capire perché, attraversando le situazioni più improbabili per un bambino, fino all’arrivo dell’Armata Rossa e, a guerra finita, tredicenne, privo di cultura, storia e famiglia, al trasferimento prima in Italia e poi in Israele.

Così si svolge, tremenda e incredibile, la vita di Aharon Appelfeld, 40 romanzi tradotti in decine di lingue, uno dei più grandi scrittori israeliani in lingua ebraica sebbene, per una curiosa e miracolosa evoluzione della sua storia di narratore, l’ebraico non appartenga alle sue origini ma divenga un’acquisizione conseguente e necessaria alla ricostruzione di una memoria frantumata e dispersa, in parte narrata nella sua Storia di una vita.

Al Centro Culturale di Milano, in occasione della riedizione di Guanda di Badenheim 1939, la sua opera più famosa e sconvolgente, lo scrittore, introdotto da Susanna Nirenstein, che ha ricordato la recente scomparsa del padre combattente nella Jewish Brigade, e Luca Doninelli, ha raccontato la sua vita con una dolcezza struggente, incantando la sala affollata di pubblico, senza mai perdere il sorriso.

Nato nel 1932 a Czernowitz, Aharon sa poco o niente della sua identità ebraica, adombrata da una voluta borghesia tedesca dove il concetto di Dio ha l’aspetto non della sacralità ma della natura: al pari di Kafka, intrappolato nel sogno novecentesco dell’assimilazione dove l’ideale intellettuale ottiene la priorità su quello religioso e storico, egli nell’infanzia non ha modo di percepire l’ebraismo.

Durante gli anni del nazismo, costretto alla fuga e sopravvissuto alla deportazione, Aharon diviene consapevole della propria identità, della condizione di estremo rischio che essa implica, e di un mondo che, ai suoi occhi di bambino, è incomprensibile, terribile e sorprendente al contempo: vogliono la sua morte ma non riesce a comprenderne il motivo e, paradossalmente, riceve aiuto da personaggi in genere poco affidabili: una prostituta e una banda di briganti ucraini, per i quali presta servizio imparando come la bontà si manifesti talvolta sotto forme strane e anomale, e come il male possa convivere con la gentilezza. Ma nulla vale a risolvere il suo stato di fuggiasco: nonostante l’aspetto nordico e la conoscenza della lingua ucraina, nessuno adotterebbe un bambino le cui origini si perdono nel mistero.

Solo nel 1944, l’incubo, in parte, finirà con il sopraggiungere dell’Armata Rossa, nelle cui cucine Aharon presta servizio fino al trasferimento in Italia, “la prima terra promessa”, e, finalmente, in Israele dove, tredicenne, vive in un kibbutz, il luogo perfetto “per coltivare l’oblio”.

Similmente a quanto accadeva nella realtà, nel romanzo riedito da Guanda, Badenheim 1939, gli ebrei dell’elegante cittadina novecentesca vogliono essere tedeschi a tutti i costi, e l’atmosfera mondana, festaiola e sognante della loro esistenza non muta neanche quando attorno al paese viene eretta una barriera di filo spinato, quando viene negata ogni possibilità di comunicazione e la vita lentamente si disgrega, e quando compare nei manifesti che ricoprono le mura, unica e impossibile speranza, l’invito ad emigrare in Polonia, un miraggio che accompagnerà gli sventurati villeggianti fino alla loro scomparsa, nel buio dei vagoni piombati. Una triste metafora dell’Europa, dove la vita degli ebrei assimilati si trasforma in un errore: questo popolo ritenuto così ricco e potente sembra invece essere paurosamente ingenuo nei riguardi di una Shoah che, assurdamente, assume il ruolo di un ritorno alle origini. Come se Dio stesso, commenta Luca Doninelli, “si consegnasse in mano ai carnefici per ricongiungere il proprio popolo”.

Nel suo narrare, Aharon non tralascia mai l’attenzione per la bellezza, per la speranza che i rapporti umani rappresentano nella storia e nella tragedia. La sua scrittura, priva di una dimensione temporale, è costruita di accostamenti dove i cambiamenti sono minimi e le scene si succedono come fotogrammi isolati l’uno dall’altro, distaccati dal loro contesto storico quasi come se il tempo, ridotto ad un ruolo marginale, scorresse solo nei brevi intervalli tra l’uno e l’altro.

Ma la particolarità che differenzia la sua opera da quella degli altri autori della Shoah, in realtà è la lingua. L’ebraico, che egli apprenderà dopo essere emigrato in Israele, diviene il filo conduttore del ricordo, la traccia per ritrovare i frammenti di un passato sommerso dall’oblio, la riscoperta di un’identità in parte ignorata e in parte distrutta e, dallo sfondo della catastrofe, la narrazione assume un carattere supremo e religioso.

E’ vero, la vita dopo l’Olocausto prende i colori cupi della disperazione, ma per superarla e andare oltre è necessario darle un senso, ed ecco che la scrittura diviene allora lo strumento essenziale per la ricostruzione della memoria frantumata, e la lingua il mezzo per riavvicinarsi ad un’identità vittima di un odio razionalmente inspiegabile e umanamente incomprensibile.

L’acquisizione della lingua ebraica per Aharon è il fulcro di un processo culturale mancato nella sua infanzia, un luogo dell’anima dove la storia, le radici culturali, la famiglia, ricompaiono con un’autenticità nitida, nostalgica e splendida, e dove anche Dio, lontano da ogni teoria, è libero di manifestarsi nei più piccoli dettagli.

La sua scrittura appare a volte straziante ma lascia trasparire una ricerca interiore proseguita nel corso degli anni passati in Israele, fino ad avvicinarsi alla dimensione della felicità: ed egli ha scelto di dedicare le proprie parole, immagini del ricordo, a tutti noi, un regalo magnifico ed una sublime testimonianza di vita.