Autorevole, esigente e riservato. Ma sempre partecipe e caloroso

Rav Elia Richetti racconta Rav Giuseppe Laras

Una collaborazione durata decenni, molte occasioni di conoscenza e studio

Nell’estate del 1959 i miei genitori parteciparono, portando anche me, ad un seminario per insegnanti organizzato dall’Histadrut Hamorim a Vigo di Cadore, dove si teneva anche il campeggio del Benè Akiva e della FGEI, insieme ad alcuni giovani rabbini e studenti delle scuole rabbiniche. Fra questi c’era un giovanissimo Rav Giuseppe Laras, che colpiva per la sua alta statura e per il suo sguardo, che sembrava spaziare in realtà ultramondane. Un anno dopo, a Cogolo di Pejo, al termine del campeggio si venne a sapere che si era fidanzato con Wally Rabello, la “fatina buona” di tutti noi bambini.
Negli anni successivi non ebbi molte occasioni di incontrarlo. Di avere sue notizie sì, da quelle familiari (la nascita dei figli, tramite una mia zia, cugina di suo suocero) a quelle relative alla sua attività, come Rabbino Capo di Ancona prima e di Livorno poi, e come Federazione Sionistica, di cui fu lungamente Presidente. Non ancora quarantenne, era già un’autorità, e non immaginavo potesse ricordarsi di me, che aveva visto bambino quindici anni prima.
Lo rividi a Yerushalaim, dove studiavo in Yeshivà, al Beth Hakenéseth italiano di Rechov Hillel un sabato mattina. Come facevo con molti frequentatori e con tutti gli ospiti da fuori, l’ho invitato al Kiddush a casa mia, che era poco distante, ma era impegnato; mi disse però che sarebbe venuto volentieri da me lunedì pomeriggio. Infatti venne, e si informò molto dettagliatamente sui miei studi, concludendo con la raccomandazione: «Continua così, perché abbiamo bisogno di te».

Difatti, quando tornai in Italia per assumere la cattedra di Rabbino Capo di Trieste ed entrai nell’Assemblea dei Rabbini d’Italia, fu lui a convincere Rav Kopciowski, allora Presidente, a cooptarmi nel Consiglio affidandomi l’incarico di Segretario e Tesoriere, incarico che conservai ininterrottamente per ventott’anni.
Fui presente, in rappresentanza della Comunità di Trieste, al suo insediamento come Rabbino Capo di Milano, e negli anni immediatamente successivi accettò più volte di venire a Trieste a formare un Beth Din per alcune conversioni (all’epoca non esistevano Battè Din centralizzati), e mi fece venire più volte a Milano nel Beth Din da lui fondato per scrivere atti di divorzio (ghittin).
Nel 1984 il Consiglio della Comunità di Milano, sentito il parere favorevole di Rav Laras, mi propose di diventare suo vice. Lavorare a stretto contatto con lui poteva essere una ghiotta occasione per imparare molte cose, ma la situazione della Comunità di Trieste, da dove era appena andato via il maestro di materie ebraiche della scuola, il Chazan stava per rientrare in America e lo Shammash  era appena mancato, unitamente alla difficoltà di trovare un mio successore, mi spinse a scegliere di restare a Trieste. Rav Laras non se ne ebbe a male, e quando, cinque anni dopo, mi dichiarai disposto ad accettare l’incarico, caldeggiò la mia nomina.

Lavorare con lui non era facile. Gli incarichi si accavallavano, e spesso si doveva tralasciare qualche impegno già intrapreso in urgenza per un altro più urgente ancora. Da vice rabbino capo divenni anche (a volte a tempo pieno, a volte come incarico sporadico) responsabile della kasheruth dei banchetti, sorvegliante alla kasheruth in alcune industrie, controllore alla shechità, redattore degli orari e delle ricorrenze del Lunario, redattore del giornale Oroth da lui fondato, insegnante di Ebraismo alle elementari, insegnante dei corsi di aggiornamento per le maestre, insegnante del Beth Hamidrash, insegnante per alcuni candidati alla conversione, segretario e scriba del Beth Din, responsabile dell’Ufficio Mortuario. Grazie alle esperienze maturate così, ho imparato tantissimo, e ho potuto anche godere di sue lezioni sul pensiero ebraico medievale, materia da lui prediletta. Inoltre, fu Rav Laras ad insistere per portarmi alle sedute plenarie (e una volta anche a una seduta della Commissione Permanente) dell’Assemblea dei Rabbini d’Europa, mettendomi così in contatto con i più influenti Maestri dell’epoca a livello mondiale. Quando vi andai la prima volta, dall’Italia partecipavano solo lui, Rav Toaff e Rav Alberto Piattelli; poi fu Rav Laras a coinvolgere nella partecipazione gli altri colleghi italiani, cosa che favorì il riconoscimento del Rabbinato italiano da parte dei maggiori Rabbinati europei e americani, nonché da parte del Rabbinato Centrale d’Israele.

Negli anni in cui fu Presidente dell’ARI il mio impegno come segretario fu quasi quotidiano, tante furono le iniziative culturali ed editoriali, nonché le sedute di Consiglio e plenarie, ma fu il periodo in cui tale impegno mi diede veramente la sensazione di star facendo qualcosa di utile per l’Ebraismo italiano.
Se nel lavoro era estremamente esigente (per lui le necessità della collettività avevano sempre e comunque la precedenza su quelle, anche legittime, del singolo, e applicava questo principio in primo luogo a se stesso), a livello di rapporti umani era riservato, non invadente, ma estremamente partecipe e caloroso. Ne ebbi varie riprove in occasione dei lutti di famiglia, di mie difficoltà familiari o con altri, ma anche nei momenti felici: il Bar Mitzwà e il Bath Mitzwà dei miei figli, i loro matrimoni, la nascita dei loro figli. Inoltre, nonostante il rigore sul lavoro, la giornata insieme a lui era sempre un’occasione per la battuta, lo scherzo, fino all’affettuoso sfottò nei confronti di chiunque, e non di rado ne fui io l’oggetto. Quindi, quando la sera finalmente riuscivo a tornare a casa, ero assolutamente sfatto dalla stanchezza, ma sempre soddisfatto dell’andamento della giornata, che al di là dell’impegno era in ogni caso stata piacevole.
Solo una cosa poteva rovinare la giornata. Rav Laras era caratterialmente incapace di vedere i lati negativi delle persone, finché la negatività non lo andava a colpire direttamente. Per questo motivo capitò a volte che riponesse fiducia cieca in persone che non la meritavano; quando gli effetti negativi si manifestavano, dopo un momento di incredulità che quelle persone si fossero comportate male, si amareggiava in maniera da trasmettere la sua sofferenza anche a chi gli era vicino.

So per certo che la mia decisione di accettare la cattedra di Rabbino Capo di Venezia gli dispiacque, anche perché lo confessò a Rav David Sciunnach; ma non solo non cercò di dissuadermi, perché capiva perfettamente i motivi che mi avevano disposto a tale scelta, ma anche, quando a Venezia ebbi alcune gravi incomprensioni con il Consiglio della Comunità, mi fu vicino con i suoi consigli e con interventi per riportare i rapporti nei giusti binari. Inoltre, fu in quegli anni che, avendo deciso di non ricandidarsi alla Presidenza dell’ARI, mi spinse ad accettare la sua successione, e durante i due mandati della mia Presidenza, sia pure senza intervenire direttamente, fu vicino a me e al Consiglio con suggerimenti e pareri.
Anche negli ultimi anni, ormai debilitato fisicamente e costretto a delegare alcuni incarichi nel Tribunale Rabbinico del Centro-Nord Italia a me, a rav Sciunnach o ad altri, volle sempre tenere il polso di ogni singolo caso, indicandoci come agire, con autorevolezza ma con fiducia. Si decise poi a nominare Rav Sciunnach suo successore alla Presidenza del Beth Din, e me lo comunicò quasi con il tono di chi chiede scusa. Fu lieto di sapere che già da tempo speravo che lui facesse quella scelta. Ma questa è già un’altra storia.