Una donna al vertice in Israele

Opinioni

Dal 18 gennaio Tzipi Livni è il nuovo ministro degli Esteri israeliano, sostituendo il dimis- sionario Silvan Shalom del Likud, ora all’opposizione.

Parlare di quote rosa in Israele è una sciocchezza, tuttavia in queste settimane si è sottolineato che è la seconda volta nella storia dopo Golda Meir, che Israele sceglie una donna come capo degli affari esteri, anzi, la prima volta in quanto la mitica Golda era allora (1955) anche Primo Ministro.

Ma chi è questo astro nascente del Kadima? Nata nel 1958, sposata, con due figli, di professione avvocato, ha prestato servizio nell’esercito e nel Mossad, il servizio di intelligence israeliano. Nel 1996 abbandona una fiorente attività nello studio legale per dedicarsi alla politica. Nel 1999 è eletta alla Knesset come membro del Likud ed entra nel comitato per la Costituzione, Legge e Giustizia e nel comitato per lo status delle donne.

Dal 2001 è ministro della Cooperazione regionale, poi ministro senza portafoglio, poi ancora ministro dell’Agricoltura e Sviluppo Rurale. Nel 2003 è nominata ministro per l’Assorbimento e Immigrazione, ministro ad interim per la Casa ed Edilizia, nel 2004 ministro per la Giustizia, e infine ora (2006) ministro degli Esteri.

E ha anche creato un precedente inedito in quanto in novembre, come rappresentante del Likud, ha partecipato a una manifestazione indetta per il decimo anniversario dell’assassinio di Rabin.

La sua storia politica è lineare. E’ figlia di una ‘famiglia combattente’: il padre Eitan e la madre attivisti storici dell’Irgun ne sanciscono l’appartenenza politica, il Likud, che sogna uno stato ebraico con uguali diritti per cittadini non ebrei. Ma quello che distingue questa donna e quello che ne ha fatto l’alleata privilegiata di Sharon sia quando questi militava nel Likud sia quando ruppe con esso, è la capacità di restare fedele al suo sogno adattandolo alla realtà delle cose: “Anch’io credo come i miei genitori, ha detto in un’intervista, nel diritto del popolo ebraico ad avere tutta la terra di Israele, ma non è meno importante che Israele sia una democrazia. Perciò se devo scegliere fra i miei sogni e il mio bisogno di vivere in una democrazia, preferisco allora rinunciare a un po’ di terra e vivere in uno stato sovrano, ebraico, democratico.” L’idea è quella di dividere la terra, rinunciare ad alcuni dei nostri diritti sulla terra di Israele e cercare una soluzione ‘due stati’.

Infatti uno dei maggiori problemi non risolti che emergono nei vari piani di pace è la richiesta palestinese del ritorno dei profughi che erano fuggiti o che erano stati cacciati da Israele durante la guerra 1948-49: questa richiesta è tale da far cadere tutte le opzioni per un assetto finale, a meno che la questione dei profughi non divenga parte integrante nella costituzione di uno stato palestinese.

La Livni spiega: “E’ importante capire il vero significato di questa soluzione. Israele fu costituito come patria per il popolo ebraico, per i superstiti dell’Olocausto e per tutti gli ebrei che avevano dovuto abbandonare i paesi arabi: qui avrebbero trovato una patria. Non diversamente, uno stato palestinese ha da essere la patria dei profughi palestinesi. Questo dovrebbe essere anche il vero significato del futuro stato palestinese. Sarebbe la risposta per i palestinesi dovunque siano – quelli che vivono nei territori e quelli che sono tenuti come moneta di scambio politico nei campi profughi. Questo è il nocciolo del conflitto. In altri termini, la costituzione di uno stato palestinese risolverà quello che i palestinesi chiamano ‘diritto del ritorno’.

Il modo per arrivare ai due stati. La ‘road map’ adottata dal governo e che porterebbe a due stati era prevista per tappe successive. Nella prima ci sono obblighi per Israele ma soprattutto l’obbligo per i palestinesi di smantellare le organizzazioni terroristiche, di riformare, di democratizzare. E questo obbligo è stato disatteso. Israele non accetterà uno stato palestinese che ospiti tali organizzazioni o sia la base per attentati contro civili israeliani.

La Livni ha detto che il riconoscimento da parte internazionale di Hamas e i compromessi con questo partito uscito vincitore alle elezioni potrebbe essere una ‘china pericolosa’. Nel corso della recente visita negli Stati Uniti ha dichiarato che ogni segno di debolezza dimostrata dal mondo verso Hamas avrebbe un effetto negativo non solo per Israele ma anche per il popolo palestinese e la comunità internazionale. Per la comunità internazionale dovrebbe essere inaccettabile il fatto che i palestinesi cerchino di separare le responsabilità dimostrando che in Hamas ci sono due ali, quella politica legalizzata e quella terroristica. E invece la tendenza da parte di molti è quella di cercare di capire, di raggiungere intese, di fare un passo indietro. E questo non lo si può accettare.

La soluzione di ‘due stati’ che è uno dei punti fermi della politica della Livni antecedente ancora alla sua entrata in politica, è anche ciò che più la allontana dal Likud. Stando alle sue parole, ella entrò in politica perché voleva fare qualcosa per la questione israelo-palestinese. Ma ben presto si accorge che il Likud, suo partito d’elezione, non è in grado di guidare il paese per via della sua contrarietà al piano di disimpegno da Gaza e la sua incapacità di chiare decisioni sulla necessità di appoggiare un processo per una soluzione ‘due stati’, che non può che essere lo sbocco finale della politica israeliana. Questo, all’indomani del doloroso ritiro, è stato ciò che l’ha fatta decidere ad abbandonare il Likud e a entrare nel Kadima.

Fedelissima di Sharon di cui guadagnò negli ultimi due o tre anni la fiducia e confidenza e della cui politica è considerata ora la principale continuatrice, ha dato il pieno appoggio al piano di disimpegno e nei mesi successivi ha partecipato agli incontri che il premier teneva con gli ex residenti di Gaza, ascoltando i loro problemi, suggerendo proposte per alleviarne la dolorosa situazione ed entrando nel vivo dei mille problemi conseguenti il ritiro.

Per quanto riguarda il futuro di Kadima senza Sharon, Tzipi Livni ritiene che il voto che Israele darà o meno dipende esclusivamente dal gruppo erede dello statista ammalato, da Olmert, da Meir Sheetrit (ministro dei Trasporti), da Avi Dichter (già capo dell’ufficio della sicurezza interna), dalla loro responsabilità di lavorare insieme riuscendo a trasmettere il messaggio che il loro primo interesse è il futuro dello Stato di Israele.