Per il filosofo Hilary Putnam l’ebraismo è un’antropologia, una guida etica

Opinioni

di Ugo Volli

Hilary Putnam
Hilary Putnam

Hilary Putnam, nato nel 1926 e morto poco più di un mese fa, è stato una dei più grandi filosofi della seconda metà del Novecento nella tradizione prevalentemente anglosassone che si usa chiamare “analitica”. Libri come “Mente, linguaggio, realtà” (tradotto da Adelphi nel 1987 o “Mente, corpo mondo” (tradotto dal Mulino nel 2003) sono classici discussi in tutte le università del mondo. Proveniente da una famiglia ebraica ma allevato laicamente, come accade in America ancor più spesso che da noi, Putnam riscoprì l’ebraismo in occasione della decisione del figlio maggiore di fare il bar mitzvà “sebbene non avessi parte di un minjan […] Che un ebreo adulto cominci a frequentare le funzioni quando uno dei suoi figli fa bar o bat mitzvà non è affatto inconsueto. Io però sono anche un filosofo. Che cosa pensavo – che cosa potevo pensare- da un punto di vista filosofico delle attività religiose cui avevo incominciato a prendere parte?” Il risultato fu un corso tenuto a Harvard nel 1997 sulla filosofia ebraica, in particolare su “3 filosofi ebraici e ¼” del Novecento: sono Rosenzweig, Buber, Levinas e Wittgenstein (quest’ultimo essendo l’¼, data la sua esplicita lontananza dall’ebraismo), da cui è scaturito un libretto (“Filosofia ebraica, una guida di vita”, tradotto da Carocci nel 2011), opera a cui dedico questa rubrica per commemorare Putnam.

L’idea di questo libro “è che per una persona religiosa teorizzare su Dio non è, per così dire, pertinente”. La lezione di questi filosofi secondo Putnam è che si può essere filosofi o in genere “persone religiose avverse alla ontoteologia” (cioè al modo di concepire il divino come un Ente supremo, secondo una teoria di origine aristotelica, importata anche nell’ebraismo durante il Medioevo), che si può “non essere disposti […] a voltare le spalle alla modernità” e però continuare a “sentirsi legati alla religione (alla religione ebraica in particolare)”. Perché la filosofia ebraica (almeno quella contemporanea) non è teologica, non è definizione metafisica della struttura del mondo secondo certi dogmi (magari quelli di Maimonide), ma è innanzitutto “guida di vita”, un’antropologia e ancor di più un’etica che trae origine dagli insegnamenti della Torà. Il “nuovo pensiero” di Rosenzweig, il “principio dialogico” di Buber, il pensiero del “Volto d’Altri” di Levinas significano innanzitutto questo, non una teoria di come sia davvero il mondo o l’oltremondo, ma un’indicazione di come gli esseri umani dovrebbero comportarsi per essere davvero umani.