Memoria, etica e autodifesa: dalla barbarie dei medici nazisti al 7 ottobre

Opinioni

di Luciano Bassani

La scienza, se privata dell’etica, può diventare uno strumento di distruzione. La medicina, nata per curare, si trasforma in apparato di tortura quando perde il legame con il rispetto della dignità umana. Chi conosce ciò che accadde meno di un secolo fa deve riflettere sul fatto che oggi l’esistenza dello Stato di Israele rappresenta non solo un’identità politica, ma una concreta garanzia di sopravvivenza per il popolo ebraico: un luogo dove può finalmente difendersi. Con Israele sopravvivono anche i valori dell’umanesimo e della civiltà occidentale.

Il 7 ottobre 2023, Israele è stato teatro di un eccidio la cui crudeltà ha evocato orrori che si credevano relegati al passato, ai tempi del Terzo Reich: donne incinte sventrate, bambini uccisi con ferocia, stupri sistematici, uomini evirati davanti ai figli, amputazioni e altre atrocità inimmaginabili. Di fronte a simili barbarie, la reazione di Israele è stata ferma e implacabile. Eppure, nonostante ciò, una parte dell’opinione pubblica internazionale — spesso disinformata o in malafede — ha accusato Israele di genocidio, dimenticando il contesto storico e morale. La memoria storica deve guidare il giudizio etico e la consapevolezza politica, senza cadere in semplificazioni.

Per comprendere la gravità di tali accuse e la necessità di autodifesa, è essenziale compiere un passo indietro di ottant’anni e osservare il ruolo svolto dai medici nel sistema concentrazionario nazista. Durante la Seconda guerra mondiale, il contributo dei medici del Terzo Reich fu centrale non solo nella gestione della vita e della morte dei prigionieri, ma anche nella conduzione di esperimenti pseudoscientifici che violarono ogni principio etico.

Il caso più emblematico e agghiacciante è quello di Josef Mengele, medico delle SS ad Auschwitz-Birkenau. Laureato in medicina e antropologia, membro dell’Istituto per l’antropologia, l’ereditarietà e l’eugenetica delle SS, Mengele rappresenta l’apice di una medicina pervertita: fondata sull’eugenetica, sulla selezione razziale e sull’eliminazione di chi era considerato “indegno di vivere”. Non fu solo un esecutore: come molti suoi colleghi, fu protagonista attivo del genocidio, trasformando la scienza in uno strumento di potere e morte.

Il suo compito principale era la selezione: all’arrivo dei deportati, decideva in pochi secondi chi dovesse essere mandato alle camere a gas e chi potesse essere temporaneamente sfruttato come forza lavoro. Un semplice cenno del capo bastava a decretare la vita o la morte. Secondo le testimonianze di numerose sopravvissute italiane, il nome di Mengele ricorre sistematicamente come responsabile delle selezioni, soprattutto tra le donne ebree arrivate a Birkenau nell’estate del 1944. In quel periodo, era il responsabile sanitario dei sottocampi femminili, compresi quelli definiti, con tragico eufemismo, “ospedali”.

Secondo alcuni storici, Mengele non era mosso da un desiderio diretto di uccidere, ma da un’ambizione scientifica smisurata: sfruttare un numero illimitato di cavie umane per produrre ricerche genetiche che gli garantissero fama e carriera nella Germania nazista. I suoi esperimenti si concentrarono su gemelli, bambini, persone con malformazioni fisiche, con l’obiettivo dichiarato di rafforzare la “razza ariana”. Le vittime subivano interventi senza anestesia, mutilazioni, iniezioni letali, dissezioni immediate. La sua apparente cortesia e compostezza rendevano ancora più agghiacciante la sua crudeltà.

Oltre a Mengele, operarono ad Auschwitz decine di altri medici criminali:

• Carl Clauberg, ginecologo, condusse esperimenti di sterilizzazione forzata nel Blocco 10, con il sostegno della casa farmaceutica Schering. Dopo la guerra, tornò a esercitare fino al 1956.

• Horst Schumann ed Eduard Wirths sperimentarono su prigionieri vivi, spesso senza anestesia.

• August Hirt, professore di anatomia a Strasburgo, ordinò la creazione di una collezione anatomica di ebrei, per cui fece uccidere 115 deportati.

• Herta Oberheuser, unica donna imputata al processo di Norimberga, sperimentò su bambini ed eseguì pratiche disumane: fu condannata.

• Sigmund Rascher, per conto della Luftwaffe, condusse esperimenti sulla resistenza umana a temperature estreme.

• Wladyslaw Dering, medico collaborazionista polacco, effettuò oltre 7.000 sterilizzazioni; dopo la guerra esercitò liberamente a Londra.

Più di cinquanta medici delle SS operarono ad Auschwitz, spesso in collaborazione con università e industrie farmaceutiche. Il Processo ai medici di Norimberga (1946-47) segnò una svolta epocale, definendo per la prima volta i limiti etici dell’attività medica e dando vita al Codice di Norimberga, fondamento della bioetica moderna.

Accanto ai carnefici, va ricordata la figura dei medici prigionieri, costretti a operare in condizioni disumane, senza strumenti né farmaci, che cercarono di salvare il maggior numero possibile di vite.

Dopo la guerra, molti dei medici criminali nazisti fuggirono in Sud America, vivendo indisturbati, protetti dal silenzio e dalla complicità di una parte della comunità scientifica e politica.

La storia dei medici nei lager resta una delle pagine più oscure della medicina contemporanea. Mengele ne è il simbolo. Troppi tornarono nell’ombra, impuniti. Ricordare questi crimini e la loro unicità non è soltanto un dovere della memoria: è un monito perenne.