La parola impronunciabile, ossia “sionismo”. Tutti la nominano, pochi ne sanno il significato

Opinioni

di Claudio Vercelli

 

In nessun conflitto, tra singole persone così come anche tra comunità – posto che quest’ultimo è tale poiché vede parti tra di loro contrapposte per un unico obiettivo collettivo – sussiste una sola ragione. Bisogna sempre e comunque contemperare i diversi punti di vista.

Non per facile e gratuito esercizio di equilibrismo di circostanza, bensì per un necessario equilibrio razionale. Ovvero, per quella condizione che non nasce dall’essere “buoni” (“riconosco le tue ragioni cancellando, al medesimo tempo, le mie”) bensì per un’insuperabile e insindacabile necessità di convivenza (“potrò continuare ad esistere solo qualora riconosca che anche tu, come collettività, esisti”). Diciamo ciò, se non altro, perché da sempre i contendenti in campo, invece, rivendicano per sé stessi una motivazione tanto piena (“noi”) quanto esclusiva (quindi, per capirci, “solo noi!”). Qualcosa, per intendersi, del tipo: “siamo noi ad avere pieni ed esclusivi diritti; gli altri, nella migliore delle ipotesi, possono coesistere con noi medesimi solo ed esclusivamente per nostra concessione”.

Quel ripetuto riferimento al “noi”, inteso come una sorta di dimensione totalizzante, è assai spesso alla radice delle contrapposizioni storicamente irrisolvibili. Poiché non è mai una motivazione bensì la negazione del fare coesistere, al medesimo tempo e negli stessi spazi, diverse ragioni. Tema in sé troppo complicato? No, francamente non lo è. Anche se nell’età populista che stiamo vivendo, invece, rischia di essere liquidato come un esercizio meramente intellettualistico. Una sorta di inutile elucubrazione.

Poste queste premesse, va riconosciuto e ripetuto che nella storia si danno sempre ragioni e interessi non solo concomitanti, ma anche interagenti. Cosa vuole dire tutto ciò, alla resa dei conti? Il primo riscontro è che nessuna contrapposizione, nel corso del tempo, tanto più a partire da quelle sulla sovranità territoriale, si risolverà in un solo modo. Ovvero, con l’esclusiva prevalenza di una parte sull’altra.

 

Se ciò è valso nell’Ottocento, al momento della formazione e del consolidamento degli attuali Stati nazionali, ossia in un’epoca comunque completamente diversa da quella che stiamo vivendo, oggi non è più così. Soprattutto nei conflitti localizzati, tali poiché mettono in contrapposizione l’esistenza di un piccolo Stato nazionale (nel nostro caso Israele) con le aspettative e le rivendicazioni di una comunità politica e sociale che non è (ancora) divenuta nazione indipendente (i palestinesi).

 

La prima cosa da osservare, a tale riguardo, è allora la dimensione spaziale, per ricondurre il tutto a scale di grandezza concrete: Israele, poste le attuali linee confinarie (in parte sancite da accordi di pace, nel qual caso con Egitto e Giordania, altrimenti intese come linee armistiziali, con il Libano e la Siria), fatica a superare i 22mila chilometri quadrati. Per capirci, lo Stato d’Israele non è più grosso della Lombardia, solo per rifarci a concrete scale di confronto. I territori palestinesi (Cisgiordania e Gaza, variamenti definiti) nel loro insieme non vanno oltre i 6mila chilometri quadrati (quasi la metà della Basilicata, regione nella quale vivono poco più di 500mila persone). La popolazione, del pari, nel primo caso ha superato da tempo i nove milioni di individui; nel secondo, arriva invece ai cinque milioni. Comprendendo comunque, nell’uno come nell’altro caso, ebrei e arabi. Per ciò che una tale divisione possa nei fatti comportare. Come dire, all’atto concreto: in quelle terre si sta un po’ stretti.

 

Va comunque da sé che il fuoco della contrapposizione – ad oggi – non siano esclusivamente gli spazi territoriali ma, anche e soprattutto, il diritto ad esistere come comunità indipendenti. Ciò detto, il secondo elemento (ossia l’indipendenza sovrana, la giurisdizione politica) si incontra, inesorabilmente, anche con il primo (l’area spaziale – quindi il territorio – sulla quale di fatto esercitarla). La legittimità ad esistere come comunità nazionale, da sempre – infatti – si incrocia con il problema del dove esistere in quanto tali. Ossia, in quale luogo fisico, geografico, materiale. Se ci si pensa bene, non è poi una cosa così sorprendente. Tutti i nazionalismi, al netto di quelli imperialistici di marca totalitaria (tali poiché indirizzati a distruggere i popoli altrui, come avveniva nel caso nazifascista), hanno costruito l’idea di “nazione” identificandola semmai con una porzione specifica di terra. Così, per capirci, anche nel caso del sionismo. Parrebbe un’ovvietà assoluta ma, ad oggi, dopo cento e più anni dalla nascita di ciò che conosciamo come “conflitto arabo-israelo-palestinese”, si tratta di un’evidenza che va invece ripetuta costantemente. Quando due comunità, tra di loro interagenti, si contendono le medesime terre e le stesse risorse, senza uno spazio di mediazione, allora l’orizzonte condiviso è quello della guerra.

Nel caso arabo-israelo-palestinese c’è tuttavia una variabile imprescindibile, che i più fingono di non volere comprendere: i fazzoletti di terra, “ferocemente” rivendicati dall’una come dall’altra parte, sono la linea elementare di esistenza di due comunità politiche e sociali – sia pure, ad oggi, rispettivamente con un diverso grado di sviluppo istituzionale – oltre la quale si pone, per ognuna di esse, il nulla, il vuoto, la condizione diasporica una volta per sempre. Il problema, quindi, per capirci, non è solo politico bensì esistenziale.

Anche per una tale ragione, nel tempo che stiamo vivendo, il gioco delle parti si è essenzialmente basato sull’altrui de-legittimazione, così come sulla de-umanizzazione.
Nel primo caso si afferma che la controparte non esista. Nel secondo si dice che la sua presenza possa costituire una perversione dell’idea di umano. Facciamo allora tutti, nessuno escluso, un esercizio: nella storia non solo del pensiero politico, ma anche della vita associata, quanto del nome “sionismo” è stato legato, di volta in volta, alla perversione del carattere umano, indicando, con il rimando ad una tale parola, al capovolgimento del rapporto tra giusto e ingiusto, tra accettabile e intollerabile?

E cosa, in tutto ciò, demanda al cosiddetto “carattere luciferino” degli ebrei, secondo la vecchia e consolidata vulgata antisemita?
Ci sono più ragioni in gioco, nel conflitto tra israeliani e palestinesi, ma una sola razionalità, quella che dovrebbe derivare dal ricondurre il tutto a un confronto tra comunità nazionali diverse. Così, nei fatti, invece non è. Da questo specchio perverso tra delegittimazioni e de-umanizzazioni, forse, varrebbe la pena di ripartire per comprendere quale sia la vera posta in gioco, tra umano e disumano. Un po’ ovunque, nel mondo.