L’imparzialità non è più una virtù

Opinioni

di Emanuele Calò

 

Ho visto una locandina di un convegno milanese su Gaza, organizzato di recente da chi intitola la propria esistenza alla battaglia per la legalità, tenuto presso un istituto scolastico. È un po’ la fotocopia di migliaia di convegni precedenti e di altrettante migliaia di convegni a seguire. I legalitari – l’ossequio alla legge dovrebbe essere lo scopo ultimo di questi sodalizi – dovrebbero considerare che l’art. 33 della Costituzione stabilisce il principio della libertà d’insegnamento e che l’art. 97 impone il dovere d’imparzialità della pubblica amministrazione.

Piero Calamandrei nel 1950 aveva sostenuto: “Facciamo l’ipotesi, così astrattamente, che ci sia un partito al potere, un partito dominante, il quale però formalmente vuole rispettare la Costituzione, non la vuole violare in sostanza. Non vuol fare la marcia su Roma e trasformare l’aula in alloggiamento per i manipoli, ma vuol istituire, senza parere, una larvata dittatura. Allora, che cosa fare per impadronirsi delle scuole e per trasformare le scuole di Stato in scuole di partito? Si accorge che le scuole di Stato hanno il difetto di essere imparziali” (Discorso pronunciato al III Congresso dell’Associazione a difesa della scuola nazionale (ADSN), Roma 11 febbraio 1950, Scuola democratica, periodico di battaglia per una nuova scuola, Roma, IV, suppl. al n. 2 del 20 marzo 1950).

 

Questo “difetto” d’imparzialità sussiste ancora o è stato superato? Le Carte dei servizi scolastici non fanno che appellarsi all’imparzialità, la quale purtroppo potrebbe essere letta come qualcosa di impalpabile, a stregua del diritto alla felicità stabilito dall’Assemblea Generale dell’ONU il 28 giugno 2012 e che ricade ogni 20 marzo. È una simpatica buffonata, ma purtroppo non è la sola. Per fortuna è solo un diritto e non anche un dovere, perché altrimenti l’autorità potrebbe andare alla ricerca degli infelici, condannandoli ad essere felici non un giorno, ma l’intero anno. A rifletterci sopra, la cosa non è campata in aria: visto che l’ONU è piena di dittature, sarebbe pericoloso che il popolo esibisse un’espressione, diciamo, scontenta.

 

Dittature? Se andate a vedervi la costituzione cinese, l’art. 1 stabilisce che la Cina è una dittatura democratica, un modo come un altro non solo di legalizzare l’ossimoro ma addirittura di esaltarlo, un po’ come Ghiaccio Bollente, portato al successo da Tony Dallara.

 

Ne discorro perché, se si vuole perseguire la legalità (purtroppo, “perseguire” è un termine infelice, in quanto passibile di essere confuso con “perseguitare”) si dovrebbe, in tesi, essere imparziali. Invece, nel citato convegno su Gaza, i relatori, per caratteristiche e curriculum, erano così d’accordo che il compito dei moderatori, suppongo, era come sempre quello di separare i relatori, ma non per impedire che si picchiassero ma per evitare che gli abbracci potessero trascendere.

 

Con grande realismo, si proponeva di abolire la guerra, ma non il terrorismo, del quale non vi era cenno. Un po’ come se nei convegni dei medici si proponesse non di curare le malattie, ma di abolirle. Prudentemente, la rivoluzione culturale proposta somigliava non ai dieci comandamenti ma alla groviera, dove il buco più vistoso era l’assenza della constatazione che fra le democrazie non vi è mai stata guerra. Se al posto di Hezbollah o di Hamas, per dire, vi fosse stata una democrazia, staremo qui a parlare di scambi culturali e/o economici, e non di donne stuprate e mutilate, bambini nei forni e civili bombardati. A questo punto, la vera rivoluzione culturale sarebbe quella di spiegare che le dittature non sono un simpatico connotato esotico ma una vera e propria porcheria.

 

In base alla mia esperienza, per gli organizzatori (non mi è riuscito di contattarli, ma non demordo) è normale che siano tutti contro Israele, senza che sia prevista una voce discorde; ma che sia normale non significa che sia legale, e per chi dice di battersi per la legalità è legittimo domandarsi perché senta il bisogno di esibire e proclamare un comportamento che dovrebbe riuscire naturale.  Talvolta capita che si chiami un israeliano per dimostrare che si è obiettivi, senza capire che si tratta di una scelta etnica che non solo non rende imparziale il dibattito, ma gli imprime pure un sottotesto antipaticamente razziale. Nel caso di cui mi occupo, è come se si chiamasse il sottoscritto a stabilire se la Lazio sia o meno un grande club.

 

Intendiamoci, tutto questo sarebbe molto divertente, se non fosse che in un momento in cui dilaga l’odio contro gli ebrei e contro Israele, organizzare dei convegni addomesticati in ambito scolastico, dove tutti sono contro Israele, dimostra non tanto un elevato tasso di callidità, quanto un elevato tasso di sfrontatezza. Si può essere pure faziosi, anche se si tratta di qualcosa che mughinianamente aborro, ma pretendere di essere dalla parte della ragione mentre si mette a tacere la controparte non è una buona cosa perché laddove si lede il diritto alla difesa, finisce per sentirsi una qualche aria di bruciato. Ennio Flaiano diceva che i fascisti si dividono in fascisti e antifascisti, ma chi organizza i convegni pensa che sia una facezia.

 

 Foto in alto: Murales.  Wikimedia Commons