La parola “ebreo”: il segno delle contraddizioni del tempo corrente

Opinioni

di Claudio Vercelli

[Storia e controstorie]

Chiamarsi “ebreo”, sentirsi come tale ma, anche e soprattutto, essere etichettato da altri in questo modo, sono esperienze, di per sé stesse, tra di loro molto diverse. Se non addirittura in opposizione. In quanto non definiscono mai, unitariamente, il senso della medesima parola, posto che esista comunque un unico significato corrente da condividere a prescindere. Semmai rimandano agli effetti che ne possono derivare dal suo essere pronunciata pubblicamente come una qualsivoglia etichetta. La quale è tale poiché determina il destino di una persona, a prescindere dalla sua reale ed effettiva condotta soggettiva.

Per venire da subito al dunque: nel primo caso, quando si parla dell’auto-definizione di ebreo, si tratta perlopiù del retaggio personale di una lunga tradizione, essenzialmente familiare ed endogamica; quindi, vissuta come condizione tanto personale quanto comunitaria, quest’ultima tale poiché condivisa tra omologhi. Nel secondo caso la parola “ebreo” demanda invece ad una stigmatizzazione (l’essere etichettati sulla base dei pregiudizi correnti) che è il mero prodotto di un’altrui definizione. In questa circostanza entra in gioco non ciò che si pensa di essere, ma quanto altri dicono che si sia. Ossia, l’altrui giudizio negativo. Che conta se condiviso tra molti. Come in una sorta di epidemia. Dove tutto si trasmette quasi inconsapevolmente.

Siamo comunque, nell’uno come nell’altro caso, sul versante culturale e sociologico. Dal XIX secolo, le scienze – così come la coscienza civile – combattono la falsa idea che a un’identità personale e di gruppo si dia, da subito, un’essenza immodificabile. “Etnica”, sociale, soprattutto “biologica”. Nulla di più falso, al netto delle invece molteplici tentazioni in tale senso. Posto che il termine con il quale tale condizione è stata definita, a cavallo di due secoli di modernità, è la triste espressione di “razza”. Francamente, ne siamo usciti da poco. Con le ossa rotte. Stiamo tuttavia rischiando, per più ragioni, di ricaderci. Posto che siamo tornati a vivere una sorta di età delle credenze, alimentate da parte delle stesse classi dirigenti sulla scorta di una visione magico-infantile del mondo. Quella che, simulando di volerci emancipare, invece ci incatena ai nostri stessi risentimenti. Ripetuti in eterno nonché trasformati in una sorta di propellente per le politiche dell’odio. Che fino ad un certo punto possono servire contro gli “altri” da noi stessi. Poiché, come in una sorta di curva discendente, sono storicamente destinate a ritorcersi contro la nostra medesima comunità.

Nessun falso sentimentalismo, solo per intenderci. Non si debbono amare, a prescindere, i cosiddetti “diversi”. Posto che agli occhi altrui si può tuttavia velocemente diventare tali. Quindi, anche e soprattutto indesiderabili. La “condizione ebraica”, a tutt’oggi, ci restituisce infatti l’ambiguità dell’irrisolto rapporto tra cittadinanza (essere divenuti uguali nei diritti, poste le rispettive diversità di origine) e rigetto ideologico della specificità culturale dettato dai razzismi di Stato.

Anche per queste tante ragioni, a conti fatti, si è quindi ebrei per nascita, “destino”, così come per condizione, per scelta e necessità. In franchezza, il rimando – in questi, come in altri casi, al monoteismo consegnato ai Sacri Testi – funziona senz’altro sul piano strettamente identitario. Ovvero, quello che viene definito attraverso la trasmissione genitoriale e comunitaria. Nonché dall’identificazione personale di sé stessi attraverso un patrimonio condiviso. Ma non è per nulla detto che sia anche la radice dell’altrui giudizio, quello che invece deriva dal senso comune corrente. Così come anche dalle norme e dalle leggi. Che, come tali, possono benissimo cambiare nel corso del tempo. In base alle maggioranze politiche e culturali di cui sono espressione.

Beninteso: non si tratta di lagnarsi, solo ed esclusivamente, della persistenza dell’antisemitismo. In franchezza, è un vizio del tempo corrente quello di definirsi non per quello che si intenda essere o divenire (spesso non trovando le giuste parole a tale riguardo) bensì per l’immagine capovolta che altri danno di noi medesimi. In quest’ultimo caso, una rappresentazione tanto raccapricciante, disgustosa quanto irrealistica. Non si è ebrei per quel che gli altri possono dire, soprattutto sulla scorta di millenarie credenze popolari. Se fosse altrimenti, allora molte donne sarebbero comunque ancora delle “streghe”. Si è invece tali per genesi, adesione, convincimento, riflessione nonché esperienza domestica, familiare e comunitaria.

Un tratto in sé complesso, poiché deve incontrarsi, nel suo evolversi, tra crescente coscienza di sé stessi e rapporto con il mondo circostanze. Quello ebraico e no. Ciò che demanda nell’oggi – propriamente – all’ebraismo, è tuttavia piegato alle vicende e alle contingenze del conflitto israelo-palestinese. Nessuno conosce per davvero gli “ebrei”; pochi vogliono sapere chi siano i “palestinesi” così come gli “israeliani”. Molti, invece, ritengono di potere formulare da subito un giudizio definitivo, quindi ultimativo, su questa secolare contrapposizione. In maniera tanto risolutiva quanto insindacabile. Schiacciandovi tutto il resto. Nonché assai spesso – quindi – ricorrendo all’archivio antigiudaico.

Quello che aiuta, tanto per capirci, a semplificare la complessità della realtà attraverso il rimando a stereotipi che cristallizzano la realtà (non solo quella ebraica) in una serie di false immagini. Destinate a fissarsi nella coscienza popolare. Anche per queste ragioni, ad oggi, il ricorso pubblico alla parola “ebreo” perlopiù non accoglie nulla dei significati che gli sono altrimenti intrinseci. Ossia, delle relazioni, dei simbolismi, delle esperienze storiche che essa accoglie tra quanti, per nascita o scelta, praticano il monoteismo giudaico. Non ha quindi nessuna valenza ermeneutica. È semmai, per l’appunto, un’etichetta. Non si è per questo, a prescindere, dei “perseguitati”. Semmai, si rimane – proprio malgrado – dei segnavia delle contraddizioni del tempo corrente. In franchezza, se ne farebbe volentieri a meno. Ma la storia dell’umanità non viene mai decisa da pochi. Men che meno da singole minoranze.