Il Memoriale Italiano ad Auschwitz

La lezione del Giorno della Memoria: ricordarsi di capire. Una occasione per esercitare il pensiero complesso

Opinioni

di Claudio Vercelli

[Storia e controstorie] A più di vent’anni dall’istituzione del Giorno della Memoria è senz’altro possibile fare un bilancio sufficientemente articolato della sua ricaduta sulla società italiana. Alle molti voci fin da subito a esso favorevoli si sono infatti sommate quelle che, con il trascorrere del tempo, hanno invece identificato limiti e strozzature di una prassi che somma in sé commemorazione e riflessione, comunicazione di superficie e analisi in profondità, emozioni di circostanza e ricerche di lungo periodo.

Un orizzonte in chiaroscuro, quindi, connotato non solo dalla natura stessa del dispositivo legislativo – inevitabilmente caratterizzato dal suo essere il prodotto di una mediazione politica e parlamentare tradottasi poi in un norma di diritto – ma anche da una molteplicità di fattori ed elementi, imprevedibili nella loro traiettoria di lungo periodo. Tra di essi, la crisi dell’antifascismo come prodotto delle trasformazioni in atto del patto costituzionale in Italia e in Europa; la oramai lunga età del populismo, che ha informato di sé non solo la politica ma anche la società civile, candidatosi ad esserne l’esclusivo rappresentante; l’indirizzo di fondo dell’Unione europea, volto a consolidare l’acquisizione, in tutti i paesi che ne sono parte, di leggi e norme di natura memorialistica improntate all’«antitotalitarismo».

Si debbono pertanto tenere in considerazioni molti aspetti dal momento che si voglia fare un’analisi critica, ancorché non polemicamente precostituita, dell’istituto memorialistico nel suo insieme. Due fattori, a tale riguardo, vanno poi privilegiati: il riscontro che la legge 211 non solo recepisce una crescente sollecitazione europea ma suggerisce di inserire le vicende italiane, e il modo in cui vengono ricordate, dentro un criterio di ordine continentale. Se i fascismi furono un fenomeno che interessò l’intera Europa, allora le tragedie che causarono non possono essere disgiunte da questo orizzonte comune.

Un secondo elemento è quello per cui l’intera articolazione data alla memorialistica istituzionalizzata (quella, per l’appunto, che si basa su una miscela di raccomandazioni a ricordare, in un corpo di attività cerimoniali, in un sistema di comunicazioni pubbliche, in un insieme di attività di pedagogia civile) è strettamente debitrice di una visione delle società che in qualche modo si sofferma soprattutto sullo statuto e la condizione della “vittima”, in qualche modo intesa come centrale nella determinazione della coscienza di cittadino, di contro ad una visione che riesca anche a tenere a sé ulteriori aspetti dell’identità collettiva. Per essere più espliciti, il Novecento è stato senz’altro un secolo di genocidi, guerre civili e lotte fratricide. Ma se si parla di esso, non si può omettere che per una parte dell’umanità ha costituito il secolo dei diritti conquistati (e per nulla regalati). Creazione (di giustizia) e distruzione (di libertà) sono due corni di uno stesso problema, due capi estremi – ed in totale contrapposizione – dello stesso filo, quello della storia. Non si può capire l’uno se non si analizza l’altro, e viceversa. Non si è cittadini se ci si pensa solo come figli di un trauma destinato a rimanere eternamente non elaborabile.

D’altro canto, non si è figli della propria epoca se non si ha cognizione delle discontinuità di cui essa è il prodotto, raccogliendo pertanto anche il lascito delle tragedie collettive. Anche per questa ragione un rischio che si corre è quello per cui ogni fenomeno storico che sia fatto oggetto di ricorrenze istituzionali possa cristallizzarsi in una serie di ritualità che, nel tempo, perdono il loro spessore più verace ed autentico.

In buona sostanza, non funziona ciò che è sottoposto ad inflazione (eccesso di offerta, ripiegata su schematismi ripetitivi, quasi che ricordare fosse un esercizio automatico e privo di asperità), a banalizzazione (de-contestualizzazione e perdita del senso di storicità di un evento collettivo, ridotto quasi ad una sorta di rappresentazione scenografica, in accordo più con il clamore del momento che non con la riflessione critica), a sacralizzazione (la sua visione come un assoluto, anch’esso decontestualizzato e privo di nessi con i processi storici) e negazione (la rimozione radicale del fatto, stravolto e trasformato in una sorta di finzione menzognera). Così come non può essere bene accetta la condotta per la quale la memoria del passato si riveli scarsamente o per nulla funzionale a un uso universalistico, riversandosi semmai nella sua piegatura particolarista, quella per cui il gruppo che è stato vittimizzato avanza istanze e richieste che sono legate esclusivamente alla propria auto-valorizzazione, non solo in chiave meramente risarcitoria. Si tratta, in quest’ultimo caso, di un tema molto delicato, pieno di potenziali equivoci. Va articolato con la necessaria attenzione a una molteplicità di implicazioni, evitando generalizzazioni e semplificazioni.

Rimane il fatto che la lotta strategica per l’affermazione dei diritti civili (i diritti alla differenza) non può essere in alcuni modo disgiunta da quella per i diritti sociali (i diritti all’eguaglianza), pena altrimenti lo sfaldamento di qualsiasi orizzonte condiviso. Anche di questo, a ben vedere, ci parla il Giorno della Memoria.