D’Alema, Israele e noi

Opinioni

Con un tris di importanti interventi (un editoriale, una lunga inchiesta e un ricordo dell’esponente laburista ed ex sindaco di Gerusalemme Teddy Kollek, recentemente scomparso), il numero di questa settimana del settimanale britannico The Economist (secondo alcuni il più autorevole periodico che si pubblichi al mondo), solleva la questione del rapporto fra il popolo ebraico e lo Stato di Israele.

Chi ne avrà l’occasione potrà prendere visione direttamente (www.economist.com) dei punti salienti di articoli che sono destinati a lasciare il segno nel mondo ebraico più avveduto. L’Economist è un giudice severo, coraggioso, non sempre, a dire il vero, del tutto imparziale, ma in ogni caso costituisce una voce che deve essere ascoltata.
Se il lettore accettasse una estrema semplificazione, il monito lanciato dal settimanale e gli spunti di riflessione che ci vengono offerti, potrebbero essere riassunti nelle poche parole che seguono.

Primo: gli ebrei dovrebbero partecipare al libero dibattito sulla situazione mediorientale e sulla politica di Israele e non cedere alla tentazione di cadere nell’automatica e preconcetta difesa dello Stato ebraico qualunque cosa avvenga.

Secondo: la Diaspora, che resta la componente largamente maggioritaria nell’ambito del mondo ebraico, sta cambiando e assumendo una nuova identità, che resta fittamente intrecciata con i destini di Israele, ma contemporaneamente è anche capace di un’elaborazione autonoma, è capace di prescindere, quando si tratta di definire la propria missione, da quello che avviene a Tel Aviv e a Gerusalemme.

Neanche a farlo apposta, e per l’ennesima volta, sulla questione del rapporto fra ebrei e Israele interviene nuovamente anche il ministro degli Esteri italiano Massimo D’Alema. L’occasione, o forse in questo caso sarebbe meglio parlare di pretesto, è la prefazione a un libro di memorie (Donna, ebrea e comunista: protagonista con i grandi italiani del ‘900, Memori editore) di Bice Foà Chiaromonte, che fu moglie del dirigente comunista italiano Gerardo Chiaromonte.

Con tutto il rispetto per i memoriali della signora Foà, la prefazione del ministro degli Esteri si era notata poco in libreria. Ma a dare manforte, riprendendola come si trattasse di un contributo essenziale, ha pensato il quotidiano l’Unità. Un dibattito, insomma, tutto giocato fra ex comunisti, post comunisti e comunisti pentiti che però vorrebbe essere utile per comprendere le pretese debolezze e contraddizioni degli ebrei italiani.
D’Alema torna a ripetere una tesi a lui cara sugli ebrei italiani che solo apparentemente potrebbe essere apparentata a quella dell’Economist.
A suo avviso le comunità ebraiche italiane “hanno perduto la capacità di esercitare uno stimolo critico sulla politica israeliana affinché la classe dirigente possa affrontare il futuro non soltanto in chiave di difesa, ma anche di costruzione di una pace che non può non essere basata sulla convivenza con i vicini”.
Il D’Alema pensiero aveva già dato il mal di pancia a molti dei suoi compagni di strada e dei suoi amici, ma con questa ultima uscita raggiunge l’apoteosi. Ripulita dalle ambiguità del politichese, e tradotta nel linguaggio corrente, la sua affermazione potrebbe suonare come segue: gli ebrei italiani si sono fatti inaffidabili, per tornare ad essere i primi della classe dovrebbero tenere sotto tiro una leadership israeliana che si preoccupa esclusivamente di stare in difesa e non è disposta a convivere pacificamente con i suoi vicini.
Sono trascorsi quasi vent’anni dalla caduta del Muro di Berlino, ma per alcuni post comunisti italiani il tempo non è bastato per togliersi dagli occhi le lenti distorte dell’ideologia.
Il richiamo all’ordine del ministro degli Esteri, cui hanno fortunatamente reagito con decisione, fastidio e imbarazzo anche alcuni ebrei italiani vicini alle sue posizioni politiche, è francamente grottesco.
Ma ancor più che incredibile, mi sembra anche pericoloso.

Esiste il rischio, infatti, di confondere una predica che sa di stantio, che sembra distillata nel retrobottega di qualche vecchia sezione di partito, con il richiamo dell’Economist.

Quando ci vengono rivolte critiche tanto assurde e campate per aria, infatti, il peggior pericolo che ci sta davanti è quello di rigettare qualunque critica, di tapparci le orecchie, di rintanarci in una posizione di difesa e di chiusura al dialogo.

Il rozzo richiamo all’ordine di D’Alema infatti suscita reazioni, l’Economist ben pochi lo hanno visto.
In una magistrale dimostrazione di dove è arrivata la subcultura giornalistica italiana, il Corriere della Sera all’uscita del ministro degli Esteri dedica una mezza paginata. E si limita a raccogliere le reazioni (peraltro del tutto condivisibili) di Tullia Zevi e di nessun altro, richiamando il lettore con un esilarante occhiello in colore rosso: “Visto dalla Comunità di Roma”. L’articolo infatti ricorda che le finestre della Zevi di affacciano sul Portico d’Ottavia. Il pezzo è un problema nel problema, che dimostra quanto ritardo abbiano accumulato le istituzioni ebraiche italiane sul fronte dell’informazione interna ed esterna.
Una pletora di presidenti, assessori e consiglieri suddivisi nei dovuti sottoschieramenti, un agguerrito manipolo di portavoce, persino ebrei italiani eletti in Parlamento nello stesso schieramento dell’onorevole D’Alema ancora non bastano per raggiungere l’opinione pubblica in modo chiaro. Sul giornale ci va la signora Zevi. E non, si badi, per il suo passato, ormai lontano, di dirigente ebraica, ma, avverte il giornalista, perché “ha alle spalle una storia esemplare. Figlia di un avvocato liberale della migliore borghesia ebraica milanese…” Per carità, mica bottegai. E difatti, avverte il giornale, “D’Alema si rivolge proprio a quegli ebrei democratici che hanno fatto la storia del XX secolo”.
In attesa che il ministro degli Esteri trovi il modo di rivolgersi a quegli ebrei italiani che realmente esistono e che vorrebbero scrivere due righe di storia di questo ventunesimo secolo senza aspettare la sua autorizzazione, che fare?
Prima di tutto, non cadere nel tranello di chiudersi in difesa. Non siamo noi ad avere gli armadi pieni di scheletri. Non siamo noi a dover soffrire di complessi di inferiorità. Ma non possiamo permetterci, come ammonisce l’Economist, di vivere perennemente in difesa.
Il dibattito su Israele è aperto. Il futuro del Medio Oriente è tutto da progettare. E gli ebrei, quelli della Diaspora e quelli che sono saliti in Israele, non hanno alcun interesse ad esprimere posizioni preconcette.
Certo, non siamo una tifoseria. E chi vorrebbe ridurci a un gruppo di urlatori non fa che il nostro danno. Siamo qui per ragionare, se è necessario anche per criticare. Certo, nel nostro rapporto con Israele è necessario fare un salto di qualità, liberarci della vecchia retorica di un sionismo di maniera che non corrisponde più ai tempi attuali, mettere da un canto le emozioni, partecipare liberamente al grande dibattito che nasce all’interno della stessa società israeliana e che nessuno potrebbe mai imporre dall’esterno a uno Stato sovrano.
Noi siamo disposti a provarci. E numerosi, concreti esempi, a cominciare dalla straordinaria vicenda politica di Ariel Sharon, mi sembra lo dimostrino.
Ma l’onorevole D’Alema deve mettersi il cuore in pace: quando difendiamo le ragioni di Israele non andiamo in caccia di privilegi. E men che meno di prevaricazioni. Sosteniamo i motivi dell’unica democrazia del Medio Oriente.