Chiedimi chi era mai questo Stalin…

Opinioni

di Claudio Vercelli

Viviamo un tempo “in assenza di storia”, una specie di eterno presente dove tutto è schiacciato sull’oggi e ogni cosa si consuma in un clic, senza lasciare tracce. Un’età della irrilevanza, della post-verità, dove vale tutto e il suo contrario. Come uscirne? Stando attenti a non confondere Storia e Memoria

Forse, più che interrogarci su un’improbabile, se non impossibile, “fine della Storia”, dovremmo invece chiederci se esiste ancora un fine condiviso da attribuire alla Storia medesima. Ovvero, un comune sentire, soprattutto un orizzonte di senso intorno al quale ancorare quell’intenzione collettiva che un tempo si sarebbe chiamata “Progresso”. Poiché ciò che sembra accompagnare l’età della globalizzazione, è un tempo in assenza di storia. Una specie di eterno presente. In altre parole, una linea di scorrimento continuo senza che buona parte degli esseri umani abbiano la percezione di evolversi e di trasformare la loro condizione in qualcosa di migliore, rispetto a ciò che già erano o sono nel frattempo diventati.

La Storia, quindi, finisce laddove le persone non si sentono più protagoniste del loro tempo, semmai subendone gli effetti in maniera completamente passiva. Sembra un paradosso ma nei fatti, ad osservarli bene, non lo è in alcun modo: i processi di interconnessione economica, culturale, informativa che da decenni stanno accompagnando lo sviluppo della società umana, ossia quella planetaria, producono, tra i loro molteplici effetti, la percezione che venga a mancare una profondità del tempo. Quella condizione, per l’appunto, che chiamiamo Storia. Tutto è letteralmente schiacciato sull’oggi, sulle esigenze repentine ed estemporanee del momento corrente. Ogni cosa sembra consumarsi al presente, senza lasciare tracce.

Viviamo l’età dell’irrilevanza: delle cose ma, purtroppo, a volte anche delle persone. È senz’altro questo anche un effetto della realtà virtuale, che oramai interagisce con noi, con la nostra quotidianità, come una sorta di ombra perenne che ci accompagna ovunque, come i nostri smartphone. Ma non basta il registrare questo fenomeno per ritenere di avere trovato una risposta esauriente al problema in sé del ricorrente bisogno e, al medesimo tempo della progressiva cancellazione, della Storia. Non solo come disciplina scolastica (e universitaria), ma soprattutto come cognizione della propria identità nella vita di ogni giorno. Alla crisi della Storia, peraltro, non si risponde con la sola Memoria. La Memoria raccoglie e rielabora frammenti del passato, soprattutto su un piano individuale o dentro dinamiche di piccoli gruppi. Il salto di qualità si ottiene quando le memorie significative, quelle che hanno una valenza civile, diventano patrimonio comune. Un aspetto, quest’ultimo, che appartiene per l’appunto alla narrazione storica, che media tra dimensione personale e visione d’insieme. Una narrazione storica che non è mai una “versione” tra le tante disponibili, ovvero qualcosa di intercambiabile a seconda dei gusti, ma il tessuto della convivenza possibile. Poiché deve funzionare come un linguaggio comune, di cui si usano in maniera differente le tante parole ma sempre all’interno di un sistema di regole condiviso. Altrimenti, si rischia di non capirsi più. La mancanza di norme comuni, infatti, non è sinonimo di libertà, ma di confusione.

In realtà, i tempi correnti, che sono caratterizzati da una progressiva omogeneizzazione culturale (essere sempre più spesso identici sul versante dei comportamenti, dei gusti, degli atteggiamenti, delle aspettative, dei pensieri; ma non eguali nella possibilità concreta di tradurre le aspettative in risultati tangibili), non sono per nulla privi di contraddizioni e incongruenze. Molti nostri contemporanei, infatti, si sentono ricacciati all’indietro nelle loro esistenze: sul piano materiale, ma anche su quello civile e morale. Quando vivono questa lacerante condizione, in genere, al netto di atteggiamenti personali di spontanea marginalizzazione dal resto della società, cercano semmai una risposta nelle identità particolari, di gruppo, vissute in maniera quasi settaria, oppure si affidano al richiamo populista. Mentre nel primo caso viene esaltato la chiusura in un ambiente ristretto, dove ci si pensa come per davvero omogenei, quindi al riparo da un mondo altrimenti incomprensibile e inaccettabile, nel secondo ci si abbandona all’idea che l’unico orizzonte possibile sia quello di identificarsi con entità astratte, come il “popolo”, le “masse”, oggi anche la “gente”, che esistono solo in ipotesi, non essendo dei soggetti storici capaci di vivere in autosufficienza. E che comunque, per avere una qualche sostanza, devono dotarsi di leadership credibili, rassicuranti, per più aspetti protettivi, cioè capaci di provvedere ai loro bisogni.

La crisi della Storia registra questo processo. Al cui centro c’è la trasformazione del ruolo degli Stati nazionali nella produzione e distribuzione delle ricchezze sociali. Quindi, degli assetti geopolitici che derivano dalla riconfigurazione dei poteri a livello mondiale. Non finisce il tempo come tale, e neanche il suo racconto che, semmai, ci rendiconta, sia pure con fatica, di queste trasformazioni. Piuttosto, subentra la paura per il futuro. Il timore che il tempo a venire possa essere più aspro e difficile di quanto già non sia il presente. Poiché il rapporto che noi intratteniamo con la Storia del nostro passato non è mai la riproduzione nuda, secca, neutra dei fatti trascorsi, ma la loro rielaborazione in funzione del presente, così come per darsi un indirizzo comune verso il futuro. Temi complessi? Senz’altro, ma bisogna ben sapere che la realtà non è mai “facile”, semplice, men che meno banale; non si presta a scorciatoie, per intenderci. Se si vuole incidere sul presente bisogna dotarsi di tutta l’intelligenza possibile. Altrimenti se ne uscirà inesorabilmente sconfitti, poiché il divario tra se stessi, come persone ma anche come gruppo, e la forza dei protagonisti mondiali, è tale da essere per sempre incolmabile. L’ebraismo contemporaneo ne sa qualcosa.
Il tema della “fine della storia”, e quindi della sostanziale inutilità o comunque impossibilità di raccontarla, peraltro è parso da subito un azzardo nel momento stesso in cui, una trentina di anni fa, qualcuno lo veniva invece formulando quasi enfaticamente. Poiché se con esso intendeva dire che il liberalismo stava trionfando ovunque, e che oltre non si sarebbe andati, essendo la forma ottimale dei regimi politici e delle relazioni sociali, di smentite nel mentre ne sono invece sopraggiunte tantissime. Le tante tensioni tra sovranismi, identitarismi, populismi e fondamentalismi, l’ombra minacciosa delle “democrature”, testimoniano semmai dell’affaticamento degli ordinamenti democratici. La storia come ricostruzione del passato esente da vincoli ideologici non può svilupparsi in assenza di libertà collettive. Una storia altrimenti prigioniera della committenza politica, è l’apologia di quest’ultima e null’altro. Qualcosa che fa molto male poiché per condizionare il presente distorce pesantemente la ricezione e l’elaborazione del passato. E quindi anche dell’identità degli individui.

La Public History
Un tema che oggi ritorna con frequenza è quello della Public history, la narrazione storica rivolta al grande pubblico. Si tratta di un campo dove, ancora una volta, la comunicazione svolge un ruolo di primaria grandezza. Di per sé, la domanda di storia che arriva dalla società è un segnale sempre importante e che come tale va raccolto. Ma spesso, sotto la patina della rivendicazione di una visione d’insieme, si cela la richiesta di ottenere delle “storie” che rispondano a un canovaccio di proprio gradimento. Ovvero, la conferma dei propri pregiudizi. E allora, non finisce per niente la storia ma di certo proliferano le molte versioni di comodo. Quanto queste possano essere poco o nulla attendibili non importa a coloro che se ne fanno alfieri, poiché il dato oggettivo soccombe sempre dinanzi alla pervicacia dell’ossidazione ideologica. La storia sincera, quella fatta senza imbarazzi o vincoli di sorta, è spesso divisiva. Mette il bisturi nelle ferite, non offre improbabili “pacificazioni”, la versione laica del “perdono”. Proprio per questo non finisce. Poiché non finisce il pluralismo umano, molto spesso conflittuale ma anche e soprattutto vitale, di cui è il racconto.