Uri Orlev, la poesia dell’infanzia rubata

Libri

di Giovanna Rosadini Salom

Uri Orlev

Incontriamo Uri Orlev a Milano, una delle tappe del suo viaggio in Italia per partecipare agli eventi programmati per il Giorno della Memoria. Scrittore di fama internazionale grazie a romanzi “per ragazzi” come Soldatini di piombo e L’isola in via degli uccelli (da cui è stato tratto un film), è autore anche di una silloge poetica scritta, da ragazzino, durante l’internamento nel campo di Bergen-Belsen.

«La storia dell’infanzia dello scrittore israeliano Uri Orlev è, nei suoi risvolti tragici, una vicenda comune a molti bambini ebrei della stessa generazione, travolti dalla guerra e dagli orrori dello sterminio», scrive Sara Ferrari, curatrice del volume Poesie scritte a 13 anni a Bergen Belsen, uscito recentemente per Giuntina e traduttrice delle poesie di Orlev.

Uri Orlev nasce come Jerzy Henrik (Jurek) Orlowsky a Varsavia nel 1931, in una famiglia di ebrei assimilati. Nell’ottobre del 1940 entra nel ghetto di Varsavia con la famiglia, per essere poi deportato, dopo l’uccisione della madre in ospedale per mano dei nazisti, a Bergen-Belsen con i familiari superstiti. Lì rimangono fino alla liberazione, avvenuta nella primavera del 1945. Il tredicenne Jurek, durante i ventidue mesi della permanenza nel campo, annota, su un taccuino compratogli dalla zia in uno spaccio mobile tedesco («il mio Taschenbuch, che custodivo gelosamente»), le poesie che formeranno la raccolta, naturalmente in polacco. La lingua che userà come narratore, poi, sarà l’ebraico: ma questo appartiene al nuovo capitolo della sua vita, quando, dopo la guerra, Jurek arriva nella Palestina mandataria, e diventa Uri Orlev. Una nuova vita, finalmente padrone del proprio destino, ma segnato per sempre da un passato che riaffiora, attraverso la nuova lingua appresa nel giovane Stato ebraico, nelle opere di narrativa, sotto forma di memoria sedimentata nello sguardo e nel cuore del bambino di un tempo; prendendo ancora a prestito le parole introduttive di Sara Ferrari: «All’interno della produzione di Uri Orlev, queste poesie costituiscono ‘una sorta di chiusura del cerchio’, il vasto cerchio di un’opera che ha fatto ritorno alla propria sorgente, lontana, ormai, nel tempo e nello spazio. È una testimonianza pura, reale, la voce autentica di Jurek Orlowsky, un bambino della Shoah». Tuttavia, questa voce appare sorprendentemente matura, e se da un lato esprime lo smarrimento infantile di fronte al dolore incolmabile per la perdita della madre, dall’altro affronta temi universali come la scelta morale che si impone fra bene e male, la precarietà della condizione umana, la compassione per le altre vittime di un comune, tragico destino… La vita del campo è descritta nella sua brutalità e durezza, ma lo sguardo bambino che ne è testimone riesce a mantenere una vena di ironia e soprattutto a conservare la speranza. La poesia, riuscendo a dare una forma alla disperazione e all’angoscia, restituisce un senso al mondo anche in una condizione così estrema, e si fa ponte per il futuro del giovane Jurek, che, oggi, è l’anziano, mite e saggio signore seduto di fronte a me, con la moglie, in un albergo del centro di Milano.

La conoscevo come narratore per ragazzi (i miei figli, oggi adolescenti, hanno letto i suoi libri, e ancora li conservano sugli scaffali di camera loro…), e queste poesie sono state una vera sorpresa… La loro voce è adulta e consapevole, e l’effetto è straniante, se si pensa che a scriverle è stato un ragazzino di soli tredici anni…

La sua è dunque, in origine, un’ispirazione poetica? O la poesia è la forma espressiva che meglio si prestava a esprimere la terribile esperienza da lei vissuta?

Da bambino leggevo moltissima poesia, in polacco, ed ero convinto che sarei diventato un poeta… Per me, è stato naturale cominciare a scrivere in versi, usando la lingua della mia infanzia… Poi, è stato altrettanto naturale, in Israele, usare l’ebraico come lingua per la prosa. Le lingue in cui mi sono espresso appartengono a fasi diverse della mia vita, e l’uso della poesia o della prosa è dovuto essenzialmente alla lingua usata… Polacco per la poesia, ebraico per la prosa; la poesia è la forma espressiva di cui mi sono servito quando ho cominciato a scrivere, ma successivamente l’ho abbandonata per la narrativa.

Ho letto che la sua famiglia d’origine era pressoché assimilata… Pertanto, la persecuzione nazifascista ha avuto l’effetto, tragicamente paradossale, di rimettere l’accento sulla vostra identità ebraica, come è del resto accaduto in Italia per intellettuali e scrittori ebrei come Primo Levi, per fare un esempio?

Effettivamente è così, io non ero minimamente consapevole di essere ebreo… Vivevamo in un sobborgo di Varsavia, e periodicamente arrivavano venditori ambulanti soprattutto di articoli di merceria, vestiti in modo strano, di scuro, con barbe e capelli acconciati in modo insolito e buffi paramenti… Non avrei mai pensato di avere qualcosa in comune con loro… Poi, un giorno, avrò avuto più o meno cinque anni, uno dei ragazzini del quartiere (giocavamo tutti insieme, senza distinzione fra ebrei e no), mi disse: «Sai che sei ebreo, tu?».  Rimasi senza fiato… Corsi subito a casa e chiesi ai miei se fosse vero, e naturalmente risposero di sì… Dopo, l’avvento del nazismo ci apparentò tutti, assimilati e no, laici e religiosi, più consapevoli e meno consapevoli di cosa significasse essere ebrei… Ma, in realtà, io non sono mai tornato alla religione, sono fondamentalmente un laico… Oggi, la spinta religiosa è sentita da molti delle nuove generazioni… Io vivo in Israele, parlo e scrivo in ebraico, questo è il mio modo di essere ebreo….

La sua scrittura, in versi e prosa, è caratterizzata da un valore di testimonianza… La componente autobiografica è decisiva… ed è altrettanto connotata dalla fiducia negli uomini e dal sentimento di speranza che trasmette. Lei è riuscito a filtrare la crudeltà e l’orrore della vita attraverso lo sguardo incorrotto dell’infanzia…

Questa capacità di “pensare positivo”, di mantenere uno sguardo aperto e fiducioso sul futuro, è a mio avviso qualcosa di molto ebraico, qualcosa che ha a che vedere con il concetto di messianismo, cuore ed essenza dell’ebraismo, cioè con il convincimento che può esistere un domani migliore dell’oggi… e le cose possono evolversi e trasformarsi… Secondo lei si può parlare, in questo senso, di un minimo comune denominatore, per la letteratura ebraica, dentro e fuori i confini di Israele?.

Vorrei innanzitutto precisare, in merito a quanto lei dice sul valore testimoniale della mia scrittura, che ciò che ho scritto non è mai un racconto diretto delle esperienze atroci che ho vissuto, non ne sono e non ne sarei mai capace, usando il punto di vista di un adulto… Non riesco, ancora oggi, a guardare in faccia i traumi subiti… Ciò che ho fatto è stato cercare di restituire quel vissuto dal mio punto di vista di bambino, protetto dallo schermo delle fantasie infantili… Non credo, poi, che si possano identificare dei tratti comuni per la letteratura ebraica… Le qualità che lei ipotizza le vedo anche in scrittori non ebrei… A me pare fondamentale, per uno scrittore, l’humus culturale che lo forma, dunque essenzialmente il contesto a cui appartiene, il suo paese e la sua lingua, soprattutto. In questo sono d’accordo con Philip Roth e il suo definirsi “scrittore americano”, anch’io non mi definirei tanto uno “scrittore ebreo”, quanto uno “scrittore israeliano”.

Come vede il futuro di Israele, cosa auspica, alla luce anche delle recenti elezioni?

Spero naturalmente che le cose possano andar meglio, e il meglio a mio parere non può prescindere dall’idea di un futuro Stato palestinese, che è l’unica possibilità per Israele di rimanere uno Stato democratico ed autenticamente ebraico.

(ha collaborato Raffaella Scardi)