Sulle colline del Chianti, per diventare chalutzim

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di Davide Foa

Palestina in ToscanaProvate per un secondo ad accostare nella vostra mente due immagini. Se vi manca l’immaginazione potete sempre cercare su Google.
Da una parte immaginate di vedere le terre verdi della Toscana, magari del Chianti; poi tracciate una linea nel mezzo e ponete dall’altro lato i terreni coltivati di un kibbutz israeliano.
Le due immagini hanno molte più cose in comune di quante voi crediate.
Già, probabilmente il fondatore del kibbutz a cui voi state pensando, prima di approdare in Palestina, è passato dalla Toscana. Lì, lavorando accanto ai contadini italiani, ha appreso l’arte del mestiere.
Quando? Nel 1934-38, nelle terre del Chianti, precisamente a Castellina.
Attenzione, non chiudete ancora la vostra mente, o la vostra pagina internet. Sembra di vederli, questi giovani ebrei tedeschi, polacchi, austriaci, cecoslovacchi, ungheresi, rumeni e lituani. Le mani ben curate, gli occhiali…, gran parte di loro proveniva dal ceto intellettuale e non aveva mai visto una zappa e ancor meno sementi e concimi.
Possiamo dirlo senza troppi giri di parole. La Toscana fu uno dei grandi laboratori agricoli di una generazione di chalutzim che qui si fece le ossa prima dell’aliyà. Oggi possiamo raccontare questa storia grazie al lavoro e alle ricerche di Carla Forti e Vittorio Haiim Luzzati, raccolte nel volume Palestina in Toscana. Pionieri ebrei nel Senese – 1934-1938 (Aska Edizioni, € 24,00).
Palestina in Toscana 4Siamo nella tenuta di Ricavo, che si trova a metà strada tra Firenze e Siena, nel cuore del Chianti.
Per chi oggi volesse visitarla, o semplicemente ci passasse per caso, troverà un hotel a quattro stelle, che poco (forse qualche mattone) conserva della prima achsciarà italiana.
Ma andiamo con ordine. Anzitutto, achsciarà, al plurale achsciarot, è il termine con cui viene identificato un campo di addestramento agricolo, per giovani ebrei desiderosi di compiere l’aliyà. Le prime achsciarot si svilupparono all’inzio del XX secolo in Europa orientale, dove, vista la drammatica situazione, il desiderio di trovare rifugio in Eretz Israel era sicuramente più forte e motivato che in Occidente.
Questi primi “campi di addestramento” venivano organizzati da movimenti sionistici giovanili di ispirazione socialista, secondo gli ideali di Aaron David Gordon e Dov Ber Borochov; secondo loro, la rinascita del popolo ebraico doveva avvenire attraverso la fatica del lavoro manuale che avrebbe poi permesso la colonizzazione della Palestina.
Va detto innanzitutto che gli ebrei della diaspora avevano, nella maggior parte dei casi, perso qualsiasi tipo di contatto con il lavoro agricolo; essi si erano di fatto inseriti all’interno di civiltà e società in cui, col passare del tempo, il contadino perdeva sempre più prestigio sociale.
Sull’esempio di questi modelli sionistici dell’Est Europa, i giovani ebrei tedeschi, finita la prima guerra mondiale e pubblicata la dichiarazione Balfour, crearono a loro volta dei movimenti giovanili sionistici per raggiungere diversi obiettivi. Prima di tutto si voleva approfondire lo studio della lingua e della cultura ebraica e poi, necessariamente, il fine ultimo era creare una società socialista fondata sul lavoro fisico, seguendo l’esempio dei chalutzim che avevano già creato i primi kibbutzim in Israele.
Tutto questo avveniva negli anni successivi alla Prima Guerra Mondiale. È lecito chiedersi come le due cose, l’ascesa dei movimenti sionistici da un lato e quella del nazifascismo dall’altro, possano andare d’accordo nello stesso arco di tempo. Certamente l’accrescersi delle complicazioni per gli ebrei in Europa stimolò il desiderio di trovare un riparo in Israele, ma questo non spiega del tutto la facilità con cui giovani ebrei, soprattutto tedeschi, riuscirono a mettere in piedi movimenti sionistici efficienti. La verità è che il nazismo non ostacolò, almeno non in principio, la nascita di questi gruppi giovanili, anzi ben vedeva le emigrazioni ebraiche.
Dal 1934 al 1938 le achsciarot tedesche crebbero e con esse i propri membri, finché la drammaticità della condizione ebraica impose la migrazione di molti giovani ebrei verso altri paesi europei, dove poter continuare l’“addestramento” in vista delle aliyot.
Esistevano due organizzazioni che si occupavano di gestire i campi di addestramento per i giovani ebrei europei. Una chiamata “Hechalutz” (“il pioniere”), fondata in Russia, poi stabilitasi in Germania, di indirizzo secolare e non religioso. L’altra, che prendeva invece il nome di “Bahad”, rappresentava la scuola ortodossa.
Le prime achsciarot in Germania e poi in Italia furono create proprio dal Bahad, rispettivamente a Betzendorf nel 1924 e appunto a Ricavo nel 1934.
La situazione degli ebrei italiani era per molti aspetti unica all’interno del panorama europeo. Con l’unità del grande stivale, gli ebrei si erano fortemente integrati con la società italiana e grande era in loro l’amore per l’Italia. Pochi nutrivano il desiderio di lasciare la propria terra per realizzare il sogno sionista. Eppure, lo stesso Mussolini vedeva nel sionismo una preziosa fonte per l’espansione coloniale italiana nel Mediterraneo orientale; non mancarono incontri tra i sionisti italiani e il duce.
Possiamo dire che la condizione degli ebrei italiani era esattamente l’opposto di quella vissuta nei paesi dell’Europa dell’Est, dove le comunità ebraiche vivevano compatte ai margini della società.
Con l’arrivo delle Leggi Razziali, nel 1938, la musica cambiò. Molti ebrei italiani si trovarono spiazzati e chi ancora nutriva illusioni dovette sgranare gli occhi davanti alla realtà.
Come detto in precedenza, i giovani ebrei tedeschi furono costretti a emigrare verso altri Paesi quando la situazione in Germania divenne critica. Essi iniziarono così a guardarsi intorno, cercando Paesi europei disposti ad accogliere le loro achsciarot.
Presto gli sguardi si soffermarono sulla penisola italiana, anche per le peculiarità del suo terreno, per molti aspetti simile a quello che avrebbero dovuto coltivare una volta giunti in Israele.
Così, il responsabile dell’achsciarà tedesca di Betzendorf, Moshe Unna, fece visita, nel 1934, alla Federazione sionistica italiana. Preoccupato per la critica situazione in Germania, chiedeva ai sionisti italiani una fattoria dove giovani ebrei tedeschi potessero apprendere i principi dell’agricoltura, studiare lingua e cultura ebraica e infine abituarsi alla vita collettiva.
Mario Ottolenghi, segretario della Federazione sionistica Italiana, riuscì, dopo sei mesi di ricerche, a prendere in affitto la tenuta di Montemagno di Ricavo presso Castellina in Chianti.  Giungeva dunque in Italia il modello dell’achsciarà.
Nonostante il raggiungimento dell’accordo tra Ottolenghi e Gremigni, il proprietario della tenuta di Ricavo, non mancarono momenti di discussione accesa tra gli ebrei italiani. C’era chi esprimeva preoccupazione per il fatto che l’achsciarà di Ricavo fosse organizzata sotto l’egemonia dei gruppi religiosi del Bahad, escludendo in questo modo gli ebrei laici dal progetto.
Vi erano poi divergenze in merito al tipo di lavoro agricolo. Forte era in questo senso la critica di tale Leo Levi, che sosteneva la necessità di una specializzazione tecnica, inesistente nei campi dei mezzadri toscani, e in più sottolineava come a Ricavo i giovani ebrei non vedessero neanche i prodotti delle loro fatiche, poiché trattati come contadini analfabeti dal sorvegliante, Giocondo. Non era certamente questo il modo di avvicinarsi alla vita in kibbutz, dove ognuno può considerarsi indipendente e godere dei frutti del proprio lavoro.
Ad ogni modo, lo stesso Levi riconosceva come Ricavo rappresentasse un fondamentale punto di partenza per imparare a lavorare nei campi, mestiere ignoto per la maggior parte dei giovani ebrei tedeschi, provenienti dal ceto intellettuale.
Interessanti sono le testimonianze dirette, riportate nel volume Palestina in Toscana. È con queste parole che Jakov Schoenbach, ebreo tedesco giunto a Ricavo nel 1934, descrive alla fidanzata, Cilla Dreyer, il lavoro nei campi: «Il lavoro è faticoso, per me in particolare perché non ci sono abituato: le mie mani sono indurite e quando le vedrai, non le riconoscerai…». Sempre all’interno del volume, vi sono racconti e aneddoti in merito al rapporto tra ebrei tedeschi e contadini toscani, due mondi che si trovarono a convivere sulla stessa terra nonostante le evidenti differenze sociali e culturali.

A Ricavo tra il 1934 e il 1938 passarono circa duecento giovani ebrei, soprattutto tedeschi ma anche polacchi, austriaci, cecoslovacchi, ungheresi, rumeni e lituani. Il tutto era gestito da un flusso continuo, per cui la partenza di alcuni per la Palestina permetteva l’arrivo di altri dall’Europa centrale. Un flusso certamente non libero da strozzature, viste le difficoltà con cui  il governo britannico concedeva certificati d’immigrazione. La situazione si complicò poi il primo settembre del 1938 quando il governo fascista decretò l’espulsione di tutti gli ebrei stranieri.
Il direttore dell’achsciarà di Ricavo, Moritz Jung, dovette occuparsi della smobilitazione. Chiese invano aiuto all’Agenzia Ebraica, sperando di ottenere visti d’immigrazione per la Palestina. Fortunatamente il governo fascista concesse diverse proroghe, permettendo a Jung di cercare sistemazioni alternative in Europa, e a molti giovani ebrei di restare a Ricavo fino al 1939 inoltrato.
Ovviamente vi fu anche chi riuscì ad arrivare in Israele. Il primo gruppo proveniente da Ricavo contò 25 persone, partite da Trieste nel 1935. Secondo l’idea di Ottolenghi, condivisa poi anche da Unna, gli olim provenienti da Ricavo dovevano continuare a costituire un gruppo unito, anche in Israele.
E così veniamo ad oggi, facendo un balzo in avanti lungo la linea del tempo e fermiamoci al 1977. Siamo a Tel Aviv, in Israele. Un gruppo di persone anziane decidono di darsi appuntamento, vogliono guardarsi in faccia e viaggiare con la mente ricordando la gioventù. Eccoli gli olim di Ricavo. Uno dopo l’altro richiamano, con estrema lucidità, episodi (e matrimoni) di quegli anni passati in Italia, dando vita a un insieme di testimonianze che si sono dimostrate fondamentali per l’avvio di una ricerca storica i cui frutti, raccolti nel volume Palestina in Toscana, rappresentano un nodo fondamentale per l’ebraismo internazionale.