Introduzione al teatro ebraico di Marc Chagall

Si può scrivere in giudeo-italiano? A volte sì. Alcuni elementi di risposta

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di Cyril Aslanov

[Ebraica. Letteratura come vita] Per definizione le parlate giudeo-italiane appartengono ad una dimensione vernacolare apparentemente lontana dalla dignità dei testi letterari. Eppure, in varie occasioni, l’espressione linguistica dell’identità ebraica ha passato la soglia che separa la lingua dell’umile quotidianità dall’elaborazione artistica del verbo sotto la forma di una produzione letteraria.

È altamente simbolico che uno dei primi monumenti della letteratura italo-romanza (sarebbe ancora prematuro parlare di lingua italiana prima del Trecento) è la famosa elegia giudeo-italiana La ienti de Sïòn scritta nell’Italia centrale (Marche o Abruzzi) nel dodicesimo secolo per l’occasione del 9 di Av. Nelle antologie della letteratura italiana antica questo testo fondatore della letteratura italo-romanza in generale e non solo della letteratura giudeo-italiana compare in traslitterazione (l’originale è scritto in lettere ebraiche) fra l’Indovinello veronese e il Cantico delle creature di San Francesco.
Nell’ulteriore sviluppo della storia degli ebrei italiani, la relativa scarsità di testi scritti nelle parlate vernacolari si spiega dal fatto che l’espressione letteraria usava dei mezzi linguistici considerati più prestigiosi: l’ebraico; lo yiddish occidentale nelle comunità ashkenazite dell’Italia settentrionale; e naturalmente, l’italiano letterario usato dai più colti e sempre più diffuso a partire dell’emancipazione.

È significativo che uno dei testi più famosi del Rinascimento italiano, I dialoghi d’amore di Leone Ebreo (Don Yehuda Abrabanel), venne in origine probabilmente scritto in italiano (1535), mentre il testo spagnolo e quello ebraico erano delle traduzioni posteriori alla versione originale italiana. Se si pensa che Leone Ebreo aveva già più di 30 anni quando arrivò a Napoli nel 1492, si può misurare il talento letterario di uno dei più eminenti rappresentanti del neoplatonismo rinascimentale che trovò in Italia un rifugio più o meno pacifico dopo le vicende subite nella Penisola iberica.

A livello più popolare, le parlate giudeo-italiane vennero talvolta documentate letterariamente secondo un processo che caratterizza i dialetti italiani in generale.
La scrittura dialettale giudeo-italiana ha dato luogo alla produzione di poesie satiriche (il solo fatto di essere scritti in dialetto conferisce una dimensione comica a questi versi) e di commedie popolari che danno una visibilità al mondo dei ghetti all’epoca in cui le discriminazioni vigenti prima del Risorgimento non erano più attuali. Il lettore potrà trovare una raccolta di questi testi teatrali nello studio molto completo, scritto da Umberto Fortis, Il ghetto in scena: teatro giudeo-italiano del Novecento – storia e testi (Roma, Carucci, 1989).

Pure le parlate giudeo-italiane che non hanno ricevuto nessuna elaborazione letteraria trovarono talvolta accesso nei testi letterari quando autori ebrei italiani si sono rivolti in modo nostalgico al loro passato famigliare, dove si erano conservate tracce dei vecchi gerghi giudeo-italiani. Primo Levi, che fu molto attento alla dimensione linguistica in generale come si vede attraverso le sue descrizioni precisissime del modo di comunicare nei campi di concentramento, descrive la parlata giudeo-piemontese che si era parzialmente conservata nella sua propria famiglia (Argon in: Il sistema periodico).

Meno autentico è il modo in cui Giorgio Bassani cercò di far parlare certi protagonisti ebrei del ciclo Il romanzo di Ferrara. All’inizio del Giardino dei Finzi Contini ad esempio (I, 4) i due fratelli celibi della signora Olga Herrera, due ebrei veneziani “da famiglia sefardita ponentina” “parlottano” fra di loro “mezzo in veneto e mezzo in spagnolo (‘Cossa xé che stas meldando? Su, Giulio, alevantate, ajde! E procura de far star in píe anca il chico…’). Tuttavia è poco verosimile che nella Ferrara dell’anno 1930 si parlasse in questo modo del resto più (giudeo-)spagnolo che veneto. Le parole meldar “leggere” e ajde “orsú” fanno parte del giudeo-spagnolo orientale dei sefarditi levantini piuttosto che ponentini.
È vero che Ferrara fu un posto importante della storia del giudeo-spagnolo. Infatti fu in questa città che nel 1553 venne stampata la famosa Biblia de Ferrara, scritta in giudeo-spagnolo (ma in lettere latine) per i marrani che non erano più capaci di leggere le lettere ebraiche.
Ma nei grandi centri dell’ebraismo sefardita in Italia (Ferrara; Firenze; Livorno; Ancona) le lingue iberiche non erano nient’altro che un sostrato che conferiva la sua particolarità al bagitto, il gergo tradizionale degli ebrei livornesi. Come tali, lo spagnolo e il portoghese erano scomparsi da molto tempo dall’orizzonte linguistico delle comunità ebraiche italiane prima che gli ebrei greci e turchi cominciassero ad immigrare in Italia all’inizio del Novecento, facendo risuonare il giudeo-spagnolo nello spazio culturale italiano.