Parole di testimonianza. Intervista a Marcello Pezzetti

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Intervista a Marcello Pezzetti.

Parole di testimonianza.
Il libro della Shoah italiana è un’opera corale in cui le voci dei sopravvissuti si intersecano, si accavallano e, come fila di un unico discorso, narrano sfaccettature diverse della medesima tragedia. Il volume, appena uscito da Einaudi, è frutto di un progetto di ricerca voluto, finanziato e portato a termine dal Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea (CDEC), a partire dai primi anni Novanta.
Le voci dei testimoni sono organizzate in un grande affresco che racconta l’esistenza degli ebrei italiani prima del 1938, i momenti degli arresti e delle successive deportazione, la vita disumana nei campi, la liberazione e il difficile ritorno alla vita.

All’autore, Marcello Pezzetti, storico del Cdec, direttore del futuro museo della Shoah di Roma, membro della commissione storica della Fondation pour la Mémoire de la Shoah di Parigi, del consiglio del Centrum Eudukacji del Museo di Auschwitz-Birkenau e delegato della Task Force for International Cooperation on Holocaust, Remembrance and Research, abbiamo chiesto quali sono stati i criteri di stesura di questo libro.


Come nasce questa raccolta di testimonianze dei sopravvissuti italiani alla deportazione?

Nel 1991, dopo l’uscita de Il libro della memoria, nel quale era racchiuso l’elenco degli ebrei identificati deportati dall’Italia e una ricostruzione storica degli eventi, l’autrice del volume, Liliana Picciotto, ricercatrice del Cdec, e io abbiamo capito che i tempi erano maturi per raccogliere le testimonianze di coloro che non avevano mai raccontato l’esperienza della deportazione. A ciò contribuirono due fatti fondamentali. Innanzitutto la disponibilità della Fondazione a effettuare uno sforzo finanziario per elaborare e realizzare un progetto scientifico relativo alla raccolta completa della memoria storica dell’ebraismo deportato dall’Italia.
In secondo luogo, la volontà dei sopravvissuti a rompere il silenzio. Nel 1992, infatti, a seguito di un’ondata neofascista, si erano verificate manifestazioni pubbliche di estrema gravità ed erano stati dipinti dei Magen David, delle stelle di David, sui muri e sulle vetrine di negozi di ebrei all’interno dell’ex ghetto di Roma. Ci fu la necessità, per chi aveva vissuto la deportazione, di testimoniare quanto era accaduto, nonostante il dolore che avrebbe comportato. Fu così che, nello stesso anno, documentammo una lunga intervista a Shlomo Venezia e, nel 1994, iniziammo a raccogliere in modo sistematico le testimonianze di molti altri sopravvissuti. La Fondazione decise di affidare la realizzazione dell’intero progetto a coloro che avevano già svolto ricerca storica intorno a questo tema e non a uno staff di intervistatori. Ciò caricò me e Liliana di un grosso fardello professionale, ma entrambi eravamo consapevoli dell’importanza di tale progetto.


A suo parere, in quali aspetti la Shoah italiana si differenzia da quella europea?

Io credo che la deportazione degli ebrei italiani fu terribile perché fu tardiva. I primi deportati giunsero nei campi di sterminio quando tre quarti degli ebrei polacchi erano già stati uccisi. La gente si era illusa che in Italia, Paese nel quale erano del tutto integrati, non sarebbe potuta accadere una simile barbarie. Questo dimostra quanta poca coscienza della realtà ci fosse sia da parte della società civile italiana, sia da parte delle comunità ebraiche.
I segni, gli elementi di allarme c’erano, eccome, ma non vi si prestava attenzione e li si credeva possibili solo in realtà lontane dalla nostra, tanta era la loro assurdità. Si pensava che là potessero accadere simili fatti, non certo in Italia, un Paese così civile, dove aveva sede il Vaticano.
Una seconda differenza è rappresentata dal fatto che, rispetto ad alcuni paesi dell’Europa centrale che hanno subito la deportazione, la Shoah, in Italia, è stata concretizzata dalla collaborazione governativa. La Repubblica di Salò ha organizzato e realizzato con i nazisti la deportazione degli ebrei italiani. Non si deve dimenticare che, nel nostro Paese, sono stati costruiti e messi in opera campi di transito, come quello di Fossoli. Solo la morte vera e propria era in mano ai tedeschi.


A questo proposito, lei crede che in Italia sia mancata un’analisi e, quindi, una presa di coscienza della corresponsabilità degli italiani nella Shoah?

Sì, in Italia, diversamente da Germania e Francia, non c’è stata un’analisi delle responsabilità avute nell’organizzazione delle deportazioni degli ebrei italiani. Al termine della guerra, il nostro Paese era impegnato nella ricostruzione. Nessuno voleva ricordare quanto accaduto. L’Italia aveva subito l’occupazione, certo, ma non vi è stata una riflessione nazionale sulla promulgazione delle leggi antiebraiche del 1938. Si è, invece, molto puntato sulla deportazione tedesca, piuttosto che su quella realizzata dagli italiani. Il considerarsi uno stato vittima del regime fascista e della guerra ha impedito l’analisi anche di un fatto più che oggettivo come le leggi antiebraiche. È solo a partire dagli anni Novanta che, nelle scuole – e non parlo solo di quelle di primo e secondo grado, ma soprattuto delle università, dove si formano coloro che insegneranno ai ragazzi la storia – si parla della Shoah. Per molti anni è mancata la formazione riguardo a quanto era accaduto. È anche per questo rifiuto della società civile, unito alla difficoltà di ricordare un così grande trauma, che molti sopravvissuti non hanno raccontato la propria esperienza. Erano convinti, a ragione, che la società non li volesse ascoltare.


Tutti i testimoni dichiarano che il ricordo provoca loro un dolore fisico, oltre che emotivo. In molti sottolineano che la scelta del silenzio è stata anche dettata dall’impossibilità di trovare parole per raccontare la Shoah. Come avete affrontato questa ineffabilità della deportazione?

Le parole utilizzate dai sopravvissuti nel rievocare i ricordi sono come pietre. Alla raccolta delle testimonianze ha molto contribuito la solidarietà fra compagni di deportazione. Molti sono stati convinti a raccontare da altri che lo avevano già fatto. In particolare, grande è stato l’aiuto fornito da Davide Di Veroli, che ha sviluppato una vera e propria rete di contatti. L’appoggio al progetto è stato totale, i sopravvissuti erano convinti della necessità di raccogliere i loro ricordi ed erano coscienti che fosse loro dovere testimoniare quanto accaduto, nonostante la devastazione che questo avrebbe procurato.


Secondo lei, ci sono strade percorribili per non museificare il ricordo della Shoah e mantenere viva la memoria del popolo ebraico?

Io sono pessimista. Sono convinto che tutto ciò che si potrà realizzare avrà poco valore se paragonato alla testimonianza diretta dei sopravvissuti. Noi possiamo e dobbiamo utilizzare nel modo migliore ciò che ci hanno lasciato e ci stanno ancora lasciando. È necessario che questa memoria arrivi integra al più alto numero di persone. La testimonianza diretta, però, è insostituibile. Con la scomparsa di chi ha vissuto la Shoah, andrà perso il valore umano, storico e identitario che c’è in loro stessi. E lo affermo con grande dolore. Dico questo perché sono convinto che ascoltare una testimonianza è ben diverso che avere vissuto quell’esperienza sulla prorpia pelle: anche se si percepisce in profondità il male subito, non è la stessa cosa. Nei loro racconti emerge con forza il dolore, quel dolore che non si può sopportare e per cui non esiste consolazione.