Manoscritto ebraico alla British Library

L’evoluzione delle parole riflette il mutamento della società. E il termine “religione”, “dat” in ebraico, non fa eccezione

Libri

di Ugo Volli

[Scintille. Letture e riletture]

Tutte le lingue cambiano, lentamente ma di continuo. Muta la pronuncia, cambia la forma delle parole (dal latino civitas all’italiano città, da domina a donna, dal latino medievale sclavos al nostro schiavo fino a ciao), ma muta soprattutto il senso: per fare solo un esempio, quando donna compare nell’italiano medievale, come in Dante, vuol dire ancora signora; ma poi il senso si generalizza a tutte le persone di sesso femminile, senza necessariamente cambiare forma. Questi mutamenti di significato sono importanti perché tracciano i percorsi e i conflitti culturali che derivano dai cambiamenti sociali. La storia delle parole non è dunque un argomento di erudizione pedante, ma una prospettiva centrale per capire come le radici culturali di ogni società. Un esempio molto significativo di questo percorso è il libro di Abraham Melamed, professore emerito di storia ebraica all’Università di Haifa, Dat: da legge a fede. Le vicende di un termine costitutivo, con l’ottima cura di Cosimo Niccolini Coen, pubblicata da Giappichelli.

Dat è un termine di origine persiana (forse con un legame etimologico con nostro verbo dare) che compare solo una volta nel testo della Torah, in una locuzione piuttosto misteriosa di Deuteronomio/Devarim 33: 2 dove si parla di “fuoco della legge”. Si ritrova invece diverse volte nella Meghillà di Ester, in Daniele e in Ezra col significato di legge dello stato. In seguito questo significato si estende a includere anche la legge divina (che nella Torah è chiamata piuttosto torah, hok o mishpat) e qualunque forma di regolamento, diventando sinonima di un prestito dal greco usato talvolta dai saggi antichi, nimus (da nomos).

 

Nei maestri successivi si ritrova spesso un tentativo di contrapporre attraverso queste parole la legge rivelata sul Sinai alle varie legislazioni straniere. Melamed ricostruisce con grande finezza l’evoluzione durante la tarda antichità e il medioevo di questo campo semantico, in cui si inserisce anche la parola di origine araba din. Ma la svolta decisiva avviene fra il 1500 e il 1600 in concomitanza con la Riforma protestante. Fu allora che il vecchio termine latino che indicava “scrupolo” anche ma non solo negli atti di culto, cioè religio, venne reinterpretato nel senso moderno di “religione”, intesa come “fede”. In seguito anche dat cambiò il suo senso: da “legge” in quel che noi oggi chiamiamo “religione”.

 

Sui dizionari di ebraico questa è oggi la traduzione. Ma non si tratta solo di un fatto linguistico, tale cambiamento è spia di una modificazione profonda della collocazione sociale dell’ebraismo: da appartenenza a un popolo regolato da certe norme a una fede religiosa, definita da alcune credenze. Melamed mostra con grande accuratezza come questo slittamento di senso abbia coinvolto in maniera diversa i differenti movimenti ebraici: approvato con entusiasmo dai riformati e da chi voleva che gli ebrei non appartenessero a una nazione a parte ma fossero cittadini “di religione mosaica”, condiviso in sostanza dai fondatori del sionismo, in particolare da Herzl, ma condizionante anche per i charedim e i maestri dell’ortodossia moderna, che in contrasto coi riformati dovettero rivendicare la caratteristica “religiosa” della loro identità. Il libro di Melamed, al di là della puntigliosa ricostruzione filologica, è uno stimolo a riflettere ancora su come pensiamo il nostro ebraismo.