di Ugo Volli
[Scintille. Letture e riletture]
In un mondo sempre più scientifico e tecnologico, in cui l’etica dominante è quella dei diritti individuali (ma come tutte le etiche, essa sottintende una metafisica e dunque una fede non così diversa da ciò che siamo abituati a chiamare religione), che posto c’è per l’ebraismo? Come giustificare le difficoltà che a uno sguardo scientista e storicista presentano le nostre scritture? Come spiegare una ritualità così impegnativa come quella ebraica? Come sostenere la specificità del popolo ebraico in un tempo in cui gli universalismi sono così dominanti? Come discutere con chi considera la fede e la religione cose arretrate, al massimo tradizioni sentimentali, al minimo forme tribali insostenibili al giorno d’oggi?
Sono problemi che chiunque viva il proprio ebraismo con passione e intelligenza ha dovuto affrontare: con amici e conoscenti, con i giovani, magari con se stesso. La risposta migliore di cui possiamo oggi disporre, la più comprensibile ma al tempo stesso profonda e colta, è stata data quasi 190 anni fa dal giovane rabbino capo di Oldenburg nella Germania settentrionale, Samson Raphael Hirsch, con un libretto in forma epistolare: le Diciannove lettere sul giudaismo, che sono state di recente tradotte in italiano da Alessandro Paris per Giuntina con la presentazione di Massimo Giuliani.
Dopo il 1836, in cui le Lettere uscirono in tedesco, Hirsch avrebbe curato importanti edizioni, commenti del Pentateuco, dei salmi e del Siddur, cioè del libro di preghiere, e numerosi articoli che ebbero grande influenza, ma soprattutto si sarebbe dedicato per tutto il resto della sua vita alla battaglia per costruire quel modo di essere ebrei che egli chiamava (riprendendo un’espressione dei Pirké Avot) Torà im derech eretz, “Torà con la via della terra” o “secondo il mondo”, che in sostanza è la moderna ortodossia.
Quando uscirono le Lettere, l’illuminismo ebraico (“Haskalà”) stava generando un ebraismo “riformato” nella lingua, nei riti, nell’impegno messianico, che nei decenni successivi divenne maggioritario in Germania e poi negli Usa. Hirsch non pensava che per scongiurare quel che gli appariva la distruzione interna dell’ebraismo bastasse tornare ai costumi del mondo yiddish, quelli cui si riferiscono oggi i cosiddetti charedim, ma che bisognasse edificare il modo di rispettare integralmente le leggi e lo spirito dell’ebraismo anche nel contesto della società moderna.
Per questo lungo lavoro Hirsch può dirsi il principale costruttore dell’ebraismo ortodosso come lo si vive oggi in buona parte del mondo e anche in Italia. Le Lettere però non affrontano se non marginalmente questi problemi, non vogliono essere uno scritto polemico. Sono una spiegazione profondamente sentita del modo ebraico di comprendere il mondo, che parte dalla meraviglia della Creazione, passa per le grandi norme etiche e arriva fino alla spiegazione dei riti principali. Scritte splendidamente, con grande apertura pedagogica e lucidità e soprattutto con profondo amore, esse mettono in scena un doppio letterario di Hirsch, che nel testo è chiamato Naphtali e dialoga con lo studente ebreo Benjamin, inizialmente scettico e poi convinto dalle argomentazioni del rabbino. È un libro profondo, con tesi non banali, ma che ha la serenità persuasiva di certe pagine di Rav Sacks. Dovrebbe entrare in ogni casa ebraica ed essere riletto di tanto in tanto, come uno stimolo al pensiero e all’identità.
Samson Raphael Hirsch, Diciannove lettere sul giudaismo, presentazione di Massimo Giuliani, trad. Alessandro Paris, pp. 192, euro 17,10