di Fiona Diwan
Il nuovo saggio letterario di Luca De Angelis
Quando il poeta Umberto Saba confidava alla madre i propri sogni di grandezza, le assicurava che sarebbe “diventato più grande di Shadal”, il letterato ebreo suo illustre antenato, Samuel David Luzzatto (appunto Shadal), poeta e storico. C’era voluto davvero molto tempo, dei secoli, perché le voci ebraiche potessero esprimersi al di fuori dal ghetto e affacciarsi al mondo esterno: contrariamente a Shadal, per Saba sarà possibile far parte di una letteratura ebraica che potrà essere letta fuori dalle mura del ghetto ed essere recepita come letteratura tout court. Tuttavia, il microcosmo intimo e protettivo del ghetto continuerà ad abitare dentro di lui, nella sua poesia, regalandole quella tonalità quotidiana e umbratile, quell’economia di linguaggio, che le è propria. Anche per Italo Svevo, il vecchio ghetto di Trieste continua a circolare nel suo universo umano, con quel senso così particolare di essere agito da forze più grandi di lui, di un destino che lo sovrasta, così tipico dei suoi personaggi. “Io porto perennemente le sbarre in me”: non era forse questa la frase che anche Franz Kafka ripeteva all’amico Gustav Janouch?
Non è bastato aprirne i cancelli a inizi Ottocento per sradicare quel microcosmo dallo spazio interiore degli ebrei, scrive Luca De Angelis nel suo ultimo e bellissimo saggio Il sentimento del ghetto (Marietti): a distanza di secoli, l’interiorità ebraica resta abitata da un paradossale senso di ghettoità vissuta nel proprio quotidiano con un senso di nostalgia e di calore. È nell’esplorazione della dimensione del ghetto come “serra iperprotetta” – ci fa notare Alberto Cavaglion nella prefazione -, è nella dialettica tra una prigione conosciuta e il desiderio di libertà, che ritroviamo i due poli che si contendono l’anima ebraica. Luogo di separazione coatta ma anche luogo di intimità famigliare e di libertà interiore, mura discriminatrici e insieme tutelanti.
Generata dal pregiudizio e dalla persecuzione, l’esperienza del ghetto ha lasciato un’indelebile impronta sul carattere degli ebrei e di alcuni scrittori del XIX e XX secolo, sostiene De Angelis. Da Israel Zangwill con i suoi “sognatori del ghetto” fino ai fratelli Singer, da Guido Artom a Albert Cohen, da Albert Memmi a Roberto Bazlen, da Romain Gary a Giorgio Bassani, solo per citarne una minima parte.
Studioso attento della letteratura ebraica del XX secolo, Luca De Angelis ha all’attivo circa una decina di saggi, ha approfondito le peculiari modalità con cui la condizione ebraica ha espresso se stessa in ambito letterario, consapevole del fatto che per l’ebreo che voglia cimentarsi con la scrittura non c’è altra possibilità che, come ripeteva il poeta francese Edmond Jabes, “essere quel che si scrive e scrivere quel che si è”. Ma la parabola perfetta del ghetto la disegna Italo Svevo con una favoletta per la figlia Letizia quando le narra di un uccellino a cui fu aperta la gabbia e che, sostando sulla soglia e non sapendo decidersi tra desiderio di volare per ampi spazi e il timore di perdersi, tra pulsione di libertà e paura, optò finalmente per la volontaria e rassicurante reclusione nella gabbietta di sempre. Ed è proprio Italo Svevo il grande protagonista di questo saggio, un wasserjude affetto da ebreitudine congenita, visto che l’acqua del battesimo asciuga in fretta, quella del battesimo dell’ebreo convertito per “opportunità”.
Ghetto interiore e spirituale, ghetto voluto e ghetto subito, elemento costitutivo dell’identità, metafora-radice della condizione ebraica, luogo dell’anima guardato con orrore e nostalgia, con dolcezza e amarezza, pietas e distanza. “Nel corso dei secoli di vita di ghetto, gli ebrei avevano imparato a osservare l’ambiente esterno, anziché muoversi e agire in esso”, fa notare De Angelis. L’emancipazione sarà l’atto di nascita della modernità letteraria dell’ebreo. Con la Rivoluzione francese, l’apertura dei recinti protettivi, il “prigioniero” ha la possibilità di “abbandonare la gabbia” ma anche di perdersi, e soprattutto di smarrire quella libertà di essere ciò che si è, sperimentata in quel protettivo isolamento. Ben lungi dall’annientare la spiritualità ebraica, per secoli il ghetto l’ha nutrita e alimentata. Per questo motivo, col tempo, il ghetto diventerà un paesaggio interiore, un luogo dell’anima, un luogo inconscio: perdendo la natura fisica e materiale del passato, il ghetto si spiritualizza e riattualizza, trasfigurato sotto nuove forme.
Luca De Angelis,
Il sentimento del ghetto, Marietti 1820, pp. 200, 21,00 euro.