«Promettilo, figlia mia: amerai il tuo popolo con tutto il tuo cuore, tutta la tua anima…»

Eventi

di Fiona Diwan

«Balla Ruth, balla figlia mia, oggi è il giorno del tuo ventiduesimo compleanno! Hai tua madre, hai tuo padre, e sei così giovane. Chi altro dei sopravvissuti è felice come te? Promettimi però di non dimenticare mai una cosa, e che questo sia il mio testamento: ama il tuo popolo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutte le tue forze,… Sei sopravvissuta a questa catastrofe mondiale, sei stata prescelta. Questo ti obbliga a condurre una vita esemplare, così da sradicare una volta per tutte l’odio nei confronti di noi ebrei. Pace sia sulla terra. Dentro di me non sono riuscito a trovarla».

A scrivere è Menachem Mendel Selinger, parole di un diario lungo quasi sei anni, la cronaca minuziosa di duemila giorni, dal 1 settembre 1939 al 21 giugno 1945, il tempo delle peregrinazioni di una famiglia ebraico-polacca, i Selinger appunto, nell’Europa nazista. Non solo un documento storico dal valore unico ma ricordi e riflessioni che hanno la potenza di un racconto tragico-epico, a tratti elegiaco, sempre asciutto, mai retorico. Questo è il diario di Menachem M. Selinger, commerciante di pellicce che dai paeselli di Tarnow e Bochnia fino alle città di Lipsia e Cracovia e poi a Budapest e Bucarest, vagherà per mezza Europa orientale insieme alla moglie Taube e alle figlie Bianca e Ruth, per sfuggire alle maglie sempre più strette della persecuzioni, tra retate, delazioni, nascondimenti, fughe, tradimenti. Selinger che, sfidando tutte le logiche dell’epoca, si rifiutò sempre di separarsi dai membri della propria famiglia e che riuscendo a mantenere unito il nucleo familiare durante i sei anni del conflitto, arriverà così a portarlo in salvo, interamente. Di questo e molto altro raccontano i tre volumi di Wir sind so weit…, titolo lasciato volutamente in tedesco dall’editore Il Faggio per via dell’intraducibile – e struggente – frase riportata sull’ultima cartolina mandata dalla sorella Hania Selinger e gettata dalla feritoia del vagone che la deportava a Belzec: «Purtroppo ci siamo; siamo ormai lontani…, un bacio a voi tutti», frase che lascia chiaramente capire il grado di lucidità circa la fine che l’attendeva. Una testimonianza, quella di Selinger, che vede oggi la luce dopo anni di lavoro curato da Tania Beilin, nipote di Menachem Mendel e figlia di quella giovane Ruth Selinger che danza per il suo ventiduesimo compleanno. «Da anni avevamo in casa questo poderoso dattiloscritto. Lo ripresi in mano tre anni fa, per il Giorno della Memoria. È stato mio marito Franco Ambrosio (che insieme alla moglie ne ha seguito la curatela, ndr), a insistere per pubblicarlo e riscriverlo. Ma senza mia madre Ruth e i suoi ricordi, senza il sostegno dei miei tre figli che mi hanno sempre incoraggiata, forse non ce l’avrei fatta ad arrivare fino a qui», spiega Tania Beilin, (il libro verrà presentato il 29 ottobre dal direttore del Museo della Shoah di Roma, Marcello Pezzetti, e da Iwona Zawidzka, curatrice del Museo Ebraico di Bochnia in Polonia, introduce Fiona Diwan, in una serata organizzata dall’Assessorato alla Cultura della Comunità e dal CDEC, nell’Aula Benatoff della Scuola Ebraica, alle 20.30).

Un’opera questa, paragonata al Diario di Adam Czerniakov e a Sepolti a Varsavia di Emanuel Ringelblum, non fosse che per la potenza degli eventi che narra e per il valore di documento storico davvero unico nel suo genere. «Selinger fissa tutto per iscritto nel 1944, praticamente in tempo reale, quando arriva a Budapest, in salvo con moglie e figlie. La stesura durerà fino al 1945: Menachem ha fretta di raccontare, teme che i ricordi, ancora brucianti, possano sbiadirsi. Sente l’urgenza di testimoniare anche come una forma di impellente dovere morale. Morirà d’infarto pochi anni dopo. Perché si salva? Lo dice lui stesso: perché conosce la lingua dei suoi persecutori e il loro modus operandi. E comprende, prima degli altri, che per salvarsi deve imparare a non fidarsi assolutamente di loro, non deve farsi illusioni… È lucidissimo. E rimane uno dei pochi a rendersi realmente conto, fin da subito, di ciò che sta accadendo», dice Marcello Pezzetti, direttore del Museo della Shoah di Roma nell’introduzione.

Ma Wir sind so weit… è anche un immenso e spietato atto di accusa: verso i nazisti ovviamente ma anche nei confronti  dei tedeschi come popolo, dei polacchi e degli stessi ebrei, quei Kapusie membri dello Judenrat, quelle vittime che sperarono fino all’ultimo di farla franca vendendo i propri fratelli, “un cancro cresciuto nel corpo del nostro popolo”, ebrei grazie ai quali il lavoro dei nazisti fu estremamente velocizzato e semplificato, scrive Selinger. L’accusa più infamante e dolorosa è per loro, per i traditori, i Kapusie. «Il libro è stato pagato con i risarcimenti tedeschi dati a mia madre Ruth e ottenuti solo pochi anni fa. Daremo l’originale cartaceo in tedesco a Yad Vashem, è giusto che lo tengano loro», spiega ancora Tania Beilin.

Di rado si piange nella lettura di queste 762 pagine. Prevale la vertigine paralizzante della visione del Male. Ogni tanto si sorride perché Selinger è diarista ironico, un arguto osservatore della brulicante umanità che gli si agita intorno. E le scintille di misericordia che incontra grazie ai pochi polacchi che lo aiuteranno, fanno gemere di gratitudine e di speranza anche noi. Le parole scorrono lucide e distaccate, mai effusive o compiacenti, con una forza evocativa rara. La minuzia e i dettagli del racconto ci immergono totalmente nello scorrere di quegli anni, nella tempestosa temperie di fughe e rastrellamenti, nell’orgia distruttiva generalizzata. Selinger trascrive un dialogo che si rivelerà profetico: «Un SS che nel lager aveva stretto rapporti amichevoli con un ebreo (succedeva anche questo), alla domanda: “Cosa dirà il mondo se un giorno verrà a sapere?”, ha risposto: “Il mondo non verrà a saperlo e se anche venisse a saperlo non ci crederà…”». Selinger prende nota, ancora, di quanto gli ebrei fossero tutti protesi ad “assicurarsi il dopo”, e pensassero alla fine della guerra arraffando cose o nascondendo i propri beni, illudendosi che quel “dopo” sarebbe stato certo migliore dell’oggi. «Sarò l’uomo più felice del mondo se riuscirò a sopravvivere sano e salvo insieme a voi, dovessi restare con quest’unica camicia addosso e senza una lira in tasca», dice Selinger alla moglie Toshka.

Il racconto scorre inanellando infamie e redenzioni, il peggio e il meglio che gli esseri umani tirano fuori in tempi di guerra.Tra attese messianiche, tra piccoli commerci di sopravvivenza e manovre per scongiurare la ribellione suicida degli ebrei del ghetto di Bochnia; tra un andare a tentoni non sapendo mai fino alla fine se la decisione presa sarà quella che ti salverà o ti perderà, Selinger ha l’intuizione decisiva: realizza che tutto quell’arrabattarsi è vano, e che chi resterà nel ghetto, abbarbicato ai propri averi, morirà. La neve è sporca di sangue, macchie persistenti dopo le prime tragiche deportazioni, e Selinger, di guardia la notte, vede in quella neve rossa un ammonimento a non lasciarsi andare, a non dormire, a muoversi e spostarsi come un furetto, unico modo per non farsi acciuffare. Sarà tra i pochi a salvarsi e riparare in Ungheria, pagando cifre folli e, prima in auto e poi a piedi, valicando i Carpazi insieme a alla moglie Taube detta Toshka, e alle figlie Bianca e Ruth.

Colpisce che ogni parte di questi tre volumi sia stata concepita come lapide funeraria dedicata ad amici, parenti, alla madre e alla sorella Hania con i suoi bambini Hasiu e Lala, lapide per tutti coloro che diedero la vita per il Kiddush Hashem, santificando il nome di Dio. Così scrive, alla fine delle sue fatiche, nel 1945, Selinger: «Non pretendo di avere descritto la realtà obiettivamente. Ho narrato gli avvenimenti dal mio punto di vista… Non ho aggiunto nulla né, per quanto riesco a ricordarmi, ho omesso alcunché di essenziale. Con i miei sentimenti sono stato parsimonioso, perché altrimenti scrivere sarebbe stato insopportabile. Ma chi sa guardare tra le righe li troverà. Ho solo voluto descrivere le vicende, le esperienze e i sentimenti di centinaia di migliai di fratelli del mio popolo in Polonia… Caro lettore, la moltitudine di nomi che cito in questo libro sono le lapidi di tutti i miei parenti, amici e conoscenti presenti nello sterminato cimitero dell’ebraismo europeo. Aguzza la vista e osserva…, assorto nei pensieri percorri insieme a me questa necropoli del mio popolo. Un nome potrebbe esserti familiare, evocarti dei ricordi, obbligarti a rimanere… e potrai capire perché ciascuno è per me sacro».