Pentole sacre e manicaretti benedetti: una tavola celestiale! Il 7 marzo a Lugano un dibattito

Eventi

All’USI, Università di Lugano, il 7 marzo, un dibattito organizzato dal Corriere del Ticino e dalla Cukier Goldstein Goren Foundation con Fiona Diwan, Linda Pelliccioli, Maryan Ismail, Carlo Silini

«L’ebraismo? Una faccenda di pentole e pannolini!». Così, con una battuta e con un tono irriverente e antiretorico, il filofoso Haim Baharier rispondeva a chi gli chiedeva cosa fosse l’identità ebraica. Al di là della battuta, l’ossessione dei testi sacri della tradizione ebraica per le genealogie e per le norme alimentari, per la tavola delle feste e il precetto di santificarle, altro non sono da sempre, in fondo, che un’affare di marmocchi e pietanze che sobbolliscono in cucina.
Niente di riduttivo in tutto ciò. Da millenni, il cibo e le regole dell’alimentazione, – si tratti di norme Halal per i musulmani, di Kashrut per gli ebrei o di cibi e riti simbolici per i cristiani -, sono al centro dei tre grandi monoteismi. Un tema di cui si parlerà in un evento-dibattito con Linda Pellicioli, docente alla Facoltà di Teologia cattolica di Lugano, Fiona Diwan, direttore Media della Comunità Ebraica di Milano, Maryan Ismail, politica e portavoce della comunità somala a Milano, moderato dal giornalista Carlo Silini, il 7 marzo, alle ore 18.00, nell’Aula Magna dell’USI, Università della Svizzera Italiana di Lugano.
Il mangiare non è mai stato un atto banale e gode, da sempre, di una dimensione spirituale e nomadica, spiegano le tre relatrici. Il cibo è la rappresentazione del rapporto umano col mondo, è un richiamo primordiale alle origini della specie e della personalità individuale, e non a caso gli antropologi ci spiegano che, anche al di fuori di regole codificate, “nessuno mangia tutto”. Siamo noi, oggi, che abbiamo perso – negli ultimi 30 anni -, il valore del cibo, divenuto commodity, merce, “pasto nudo” perché spoglio di significati simbolici e lontanissimo dal contatto originario con le sue fonti naturali. «Com’è noto, il trasferimento di generazione in generazione dell’identità di un popolo e delle sue tradizioni avviene davanti a una tavola imbandita. E ciò vale anche per tutte le identità. In particolare, la spiritualità ebraica si è concentrata sul tentativo di sacralizzare la corporeità e la materia, ovvero nel credere che il soffio divino e la scintilla della trascendenza abitassero tutte le dimensioni della vita dell’uomo, nessuna esclusa. Tanto più a tavola, e in presenza di succulente pietanze», spiega Fiona Diwan. Alla scoperta quindi del cibo delle feste e di quello rituale, dalle norme alle regole, dalle curiosità alle tradizioni. Della cucina giudeo-italiana, ad esempio, della sua storia e segreti, della rilevanza alimentare dell’oca, il “maiale degli ebrei”, che forniva proteine a buon mercato, e che a partire dal Medioevo divenne la prima risorsa di autoconsumo domestico, gerarchicamente al primo posto sulle tavole ebraiche del nord Italia.

Nel caso del mondo ebraico, alimenti e ingredienti viaggiavano al seguito di ebrei fuggiaschi, da un luogo all’altro. Scopriamo così che quella sefardita, e quasi tutte le cucine ebraiche, si definiscono come cucine di intermediazione, un ponte tra due mondi. Le orecchiette, ad esempio, arrivano in Puglia nel XII secolo dentro i ricettari di ebrei provenienti dalla Provenza, dove venivano consumate fin dall’Alto Medioevo. E lo sapevate che, nel 1500, in fuga dalla Spagna e dai roghi dell’Inquisizione, gli ebrei si portano dietro l’araba berenjena, la melanzana, fino ad allora sconosciuta in Europa (ignorata insieme ai fagiolini, detti judias in spagnolo, ai carciofi e ai finocchi)? Gli esuli iberici introdussero questi alimenti nelle loro nuove terre-rifugio; la popolazione italiana circostante, che li ignorava, li etichettò subito come “mangiari alla giudìa”. Il caso della melanzana è clamoroso: quello che per gli ebrei sefarditi di allora aveva il ruolo che la patata ha oggi per noi, dilagò ovunque, in Sicilia, nei Balcani, in Provenza, in Italia.

Pellegrino Artusi racconta che, a fine Ottocento, le melanzane erano quasi introvabili a Firenze, perché disprezzate come “cibo da hebrei”. Altre peculiarità? La cucina giudeo-romano-tirrenica, che porta con sé l’arte di cucinare le frattaglie e le interiora degli animali. O ancora quella giudeo-padana-adriatica che introduce i sapori agrodolci, lo “scapece”, il carpione (tipico piatto degli ebrei di Ferrara, nel Rinascimento), le “sardele in saor” considerate tra i più tipici piatti giudeo-veneti dall’epoca di Tiziano…
Storie, riflessioni, significati antropologici, cibo sacro e profano. Nei tre monotesimi.