Il colore che danza, Tel Aviv onirica…

di Fiona Diwan

Cathy Josefowitz, o il colore che danza

Dal lavoro di Cathy ho imparato che la danza è in ogni gesto, compresa l’immobilità. Che la pittura (la bellezza), è dappertutto. Che bisogna prendere molto sul serio i colori (che dobbiamo imparare a riconoscere come Creature). E che prendere sul serio significa giocare, giocare instancabilmente. Quando parliamo dei suoi quadri, in genere in lingua francese, lei non li chiama mai così, tableaux, al maschile, ma peintures, “pitture”, al femminile. Penso sia importante, e non sia solo la traduzione dell’inglese paintings”. Così scrive Beppe Sebaste nel testo che accompagna la mostra che Sotheby’s a Milano, e Claudia Dwek insieme a Helena Newman, dedicano all’artista Cathy Josefowitz, titolo Meditation-In & Out, dal 5 al 16 marzo (palazzo Broggi, via Broggi 19, 02-295000278). Coreografa oltre che artista, -ha esposto nelle gallerie di tutta Europa, è nata a New York, nel 1956, ha vissuto tra Francia, Svizzera e Italia-, le mostre di Josefowitz ci parlano di ricerca spirituale e di una trascendente immanenza. In un’arte diventata troppo immateriale, le vaste tele di Josefowitz riacciuffano non solo la materia, la gestualità e la fisicità liberatoria del gesto artistico ma anche la sua definizione in termini cromatici, colore come essenza più pura della danza di vivere, strumento di creazione di uno spazio meditativo e sacro. Josefowitz dipinge per terra, alla maniera del celebre dripping, -sgocciolamento-, di Jackson Pollock, in un bisogno di aderire alla materia e a una femminilità tellurica, perseguendo un intimo senso di felicità. “Non ho scelta, ho bisogno di dipingere, senza pittura non potrei vivere”, ha dichiarato l’artista nei film a lei dedicati da Francois Levy Kuentz, Painting dancing. Coreografia come invito a nuotare, traslocare nel colore, come in un teatro. Josefowitz sembra inseguire -scrive Sebaste-,  “un’estetica della sparizione, il colore che seduce diventando muro e assimilando a sé le persone e le ombre, l’appello insistente del fuori-campo, di ciò che sta al limite, insomma quella ricerca estetica su come “divenire fantasmi”, senza senso di lutto né timore. Tema su cui insisteva un’altra grande artista-fotografa, coetanea di Cathy, Francesca Woodman. Forse è proprio lo scialle, il talleth, il punto di svolta: nella sua dialettica del velo, che svela mentre nasconde, e che concentra in sé pittura, femminilità e rituale”. E se mai dovesse esistere una preghiera a colori, questa è tutta nelle tele di Cathy.

In un clic, lo skyline onirico di Tel Aviv

“Scatto per capire, per rubare alla vita, per far venire al mondo, una seconda volta, ciò che l’impatto retinico registra in automatico. Ogni cosa, ogni essere umano, ogni visione, hanno diritto a una seconda vita, a una seconda possibilità. E ebraicamente è solo nella dualità e nel numero due che l’esistenza si compie compiutamente”. Così parla Dalia Sciama, giovane fotografa milanese a commento delle foto in mostra  al Pitigliani di Roma ancora per pochi giorni (chiude l’8 Marzo). Negli scatti in mostra, è Tel Aviv a fare la parte del leone e ci appare come un cantiere, dove i più noti architetti sono chiamati a sperimentare, contribuendo alla crescita verticale della città. Ma le foto di Sciama ci fanno intuire la doppia (forse tripla e quadrupla), anima architettonica della metropoli. In questa serie di foto lo sguardo si concentra sul tessuto urbano di Tel Aviv, cercando di trattenerne l’atmosfera. L’intenzione è quella di cogliere la percezione che ne deriva. Ecco allora gli ambienti urbani caotici e brulicanti, paesaggi urbani dalle atmosfere insolite, colori e suggestioni visive che rimandano a film di fantascienza, dove il connubio tra il vecchio e il tecnologico, il fatiscente e l’innovativo, il naturale e l’artefatto, è l’elemento chiave. I cieli plumbei, lo skyline, le luci notturne e le viste aeree rievocano la LosAngeles piovosa e sovrappopolata di Blade Runner. Nonostante si percepisca il brulichio verminoso di una società caotica, tra flussi di traffico e luci, nelle foto di Sciama è quasi impossibile individuare l’elemento propriamente umano. Ne scaturisce un effetto di straniamento e una dimensione quasi surreale. Lo sguardo distaccato e freddo su Tel Aviv cambia ironicamente alla fine del viaggio della fotografa, per ritrovare un’umanità e una luce mediterranea, una Tel Aviv da cartolina che si fissa nel sorriso luminoso di una bambina, nel passo pieno di baldanza del suo incedere incerto.