Il Papa, gli Ebrei e le lacrime del Cardinale

Eventi

di Fiona Diwan

Da sinistra, Rav Eugene Korn e Rav Rosen
Da sinistra, Rav Eugene Korn e Rav Rosen

SALERNO (3- ultima puntata)- Sono le lacrime di un Cardinale a farci capire che forse è giunto il momento della grande riconciliazione. Piange Monsignor Francesco Coccopalmerio, Presidente del Pontificio Consiglio dei testi legislativi, piange e non lo nasconde. Sulle note della melodia di “Adon Olam” cantate da Rav David Sciunnak e ancora su quelle de “Il Signore è il mio pastore”, cantate dal coro della cattedrale di Salerno, il Cardinale si commuove e queste lacrime silenziose suggellano questa tre giorni di incontri e confronto tra due monoteismi che forse la vogliono smettere di guardarsi in cagnesco.

Si sono spente le luci sul meeting di Salerno organizzato dalla CEI, -Conferenza episcopale italiana-, e da Don Cristiano Bettega con il vivace contributo, per la parte ebraica, di Vittorio Robiati Bendaud, assistente di Rav Giuseppe Laras: tema, il Dialogo ebraico cristiano, Prospettive di re-incontro tra due fedi religiose (il 24-25-26 novembre 2014). Dopo questo di Salerno, il prossimo appuntamento è fissato a Roma, per il 28 ottobre 2015, data del 50esimo anniversario della dichiarazione Nostra Aetate che modificò e impresse una svolta epocale ai rapporti tra la Chiesa e le altre confessioni religiose, emendando nero su bianco gli errori millenari compiuti non solo nei confronti degli ebrei, ma anche di altre fedi. A partire da qui il dialogo ha emesso i primi vagiti ed è giusto che a organizzarlo sia L’università Gregoriana di Roma che raccoglierà così il testimone del lavoro sul dialogo compiuto qui a Salerno, e impegnandosi a fargli fare un altro pezzo di strada.

Storia, teologia, ermeneutica, riflessione spirituale, autocritica e autoanalisi. Un’occasione per conoscersi, com’era nelle intenzioni di Rav Giuseppe Laras e del Cardinal Martini, i due alfieri del dialogo interreligioso in Italia. Il meeting ha visto sfilare il mondo cattolico, ebraico e anche protestante.

Nelle sue battute finali prendono la parola i valdesi con il professor Daniele Garrone della Facoltà Valdese di Teologia. «Martin Lutero era un biblista e commentò tutta la Torà, visto che padroneggiava perfettamente l’ebraico: cercava tra quei versetti un conforto alle sue tesi. Ma se conosceva così bene la Torà, come si spiega il suo antisemitismo feroce, tanto più che viveva in un luogo dove c’erano solo pochissimi ebrei? Tutto parte dal confronto che Lutero ebbe con chi, al suo tempo, sapeva l’ebraico come e meglio di lui, ovvero quegli ebrei dotti e sapienti i quali ovviamente non concordavano affatto con la sua lettura dei testi. E’ così che Lutero si infuria e dice che i rabbini sono superbi, distorcono le Scritture. Lutero non accetta un ermeneutica diversa dalla sua, insomma non accetta il contraddittorio di chi legge la Torà in modo diverso dal suo. E così dall’ira all’antisemitismo il passo è breve. Ecco perchè oggi, sapendo che un’altra ermeneutica è possibile, noi cristiani dobbiamo imparare a leggere la Bibbia ebraica in modo corretto sapendo che le conclusioni forse non saranno le stesse ma che sono profondamente connesse».

Parte da lontano anche Monsignor Gianantonio Borgonovo, arciprete del Duomo di Milano, biblista, specialista di Giobbe, ex direttore dell’Ambrosiana, docente alla facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale. «Rifiutare la Bibbia ebraica da parte del teologo Marcione, nel II° secolo dell’E.V., fu un errore. Rifiutarla nel Medioevo fu un tragico destino. Rifiutarla oggi sarebbe un disastro, una paralisi religiosa, teologica», spiega Borgonovo raccontando, con un lungo e prodigioso – per erudizione – excursus storico, i legami tra le Scritture viste dagli ebrei e dai cristiani. Dalla rivolta di Bar Kochbà alla terribile politica di Adriano che con i suoi editti volle cancellare tutto ciò che di ebraico ci fosse nell’area, ivi compresi i nomi che dovevano essere romanizzati, sia quelli di luoghi che di persone, a partire da Yerushalaim che divenne, com’è noto, Aelia Capitolina. Il Concilio di Nicea declassò poi le Scritture ebraiche ad Antico Testamento, e l’interpretazione allegorica che leggeva la Torà come prefigurazione della venuta di Cristo fece il resto per declassarla definitivamente, fino ad arrivare al divorzio irreversibile, alla separazione totale tra Chiesa e Sinagoga avvenuta nel terzo secolo dopo l’E.V.. Paolo di Tarso scriveva da giudeo ai giudei, non ai cristiani che ancora non esistevano, spiega Borgonovo. E così, alla Bibbia in lingua originale, a poco a poco subentra la Bibbia dei Settanta non più in ebraico ma mi greco, come testo di riferimento ormai tradito da una traduzione che lo impoverisce e travisa. Nel mondo cristiano, la distanza dalla Torà in ebraico, quella originaria, si fa vieppiù incolmabile. Sarà San Gerolamo ad accorgersi di questo fatale iato e del fatto che la traduzione greca non è affidabile; così Gerolamo cerca un ritorno all’originale ebraico, ne fa una necessità imprescindibile per ristabilire un confronto veritiero, ma riesce a farsi solo dei nemici che lo guardano con sospetto. Sarà osteggiato da Rufino e altri, che denigreranno Gerolamo e continuando a preferire le traduzioni in greco della Torà. Rufino accuserà Gerolamo di preferire Barabba a Gesù e lo taccia di essere prigioniero dei giudei che lo portano verso il Male. «Ecco perchè oggi, per noi, riabilitare una lettura corretta della Torà, ristabilire l’ebraica veritas, mettere a confronto le due letture scritturali è urgentissimo e non rimandabile», dice Borgonovo.

Per David Meghnagi, docente all’Università Roma Tre e Direttore del master di didattica della Shoah, la domanda è «quali sono le problematicità del nostro cammino comune? Innanzitutto la problematica costituita dalla Shoah e dal suo bagaglio di disperazione e morte; in secondo luogo, il germogliare e risvegliarsi dell’autodeterminazione nazionale degli ebrei e la nascita dello stato di Israele. Il mondo cristiano deve  fare i conti con le tensioni e gli imbarazzi generati dalla mostruosità della Shoah, a sua volta generata da secoli di violenza  e demonizzazione degli ebrei. Inoltre, dopo duemila anni di esilio, il ritorno di Israele nella terra dei padri è ancora forse problematico per chi ha predicato l’erranza di Israele come punizione.  Israele va accettato nella sua realtà politico-statuale una volta per tutte, viceversa resterà uno scoglio al proseguimento del dialogo. Prendiamo ad esempio il riconoscimento dello stato di Israele da parte del Vaticano, avvenuto dopo la Guerra del Golfo. Perché così tardi? Perché la realtà di Israele resta un nodo irrisolto? Esiste una schizofrenia da curare: il mondo cristiano va alla Giornata della memoria e poi quando nomina Israele continua a chiamarla Terrasanta. Perché? Resiste ancora su Israele una teologia marcionica (da Marcione, ndr), un rifiuto; ma nessuno ne parla». Meghnagi si sofferma brillantemente su Jules Isaac, Maimonide, Elia Benamozegh, Franz Rosenzweig, pensatori ebrei profondamente convinti della necessità del dialogo tra le due fedi e della necessità di rimettere insieme un mondo andato in frantumi.

Monsignor Simone Giusti, vescovo di Livorno, si rifà alla figura di Monsignor Ablondi suo predecessore, grande amico di Rav Toaff, e sottolinea che «come ci dice papa Francesco, il dialogo interreligioso è vitale oggi per la Chiesa, ma non un dialogo di vertice che dimentica il popolo di Dio, quanto la prassi quotidiana, la formazione delle coscienze, questo conta. Dobbiamo riconoscere gli errori fatti e gioire delle verità condivise. Osare, dialogare amare la profondità. Non accontentarsi del “dialogo delle carezze” ma porre fine all’insegnamento del disprezzo per creare una solida base teologica comune, che c’è eccome, ve lo garantisco. Dialogare è un arte, una virtù, vuol dire intraprendere un lavoro su di sé. Non si nasce dialoganti. Significa davvero capire l’altro,  partire dall’altro, non da quello che io penso lui pensi di me. Per cambiare la mentalità ci vorrà tempo, ma non abbiamo altra scelta», conclude Giusti.

Pieno di verve è l’intervento di Rav David Rosen dell’American Jewish Committee, rabbino modern-orthodox e personaggio chiave nel raccordo tra mondo cristiano e realtà israeliana, nonché membro permanente della commissione bilaterale Santa Sede-Stato di Israele. Rosen esordisce con una descrizione delle comunità ebraiche italiane che lui ritiene dominate da un forte tradizionalismo e caratterizzate da un duplice, ambivalente atteggiamento verso il dialogo, di disprezzo da una parte e di favore sul versante opposto. Rosen fa un excursus dei rapporti tra le due fedi nella storia fino ad arrivare a quella che lui chiama la “bancarotta morale del mondo cristiano”, dopo la Shoah. Citando Rav Berkovitz, Rav Rosen invita il mondo cristiano a ripudiare l’antisemitismo e a ripulirsi da questa infamia: senza questo primo passo nulla sarà possibile, dice. Ma perchè, si chiede Rosen, il dialogo è visto così negativamente da taluni milieu ebraici italiani? Perché spaventa, risponde Rosen, e perchè rimanda a una possibile, temuta, perdita della propria identità. E infine perchè agita il fantasma-pericolo dell’assimilazione. Non a caso, sottolinea, oggi molti giovani rabbini ortodossi sono di gran lunga meno aperti di quelli della generazione precedente. Senza contare che per noi ebrei, essere stati considerati un monoteismo incompleto e monco, per secoli, è ancora qualcosa di offensivo e indigesto. E che il riconoscimento così tardo di Israele, da parte del Vaticano, ha gettato una luce dubbiosa sulla sincerità e sul valore del dialogo. Il dialogo e l’incontro coi cristiani era considerata dagli ebrei qualcosa di così poco credibile e di così stravagante che fino alla visita di Papa Wojtila in Israele non esisteva nemmeno un ufficio preposto al dialogo presso il Rabbinato di Israele. Fu quella visita a svegliare il Rabbinato che si pose il problema, per la prima volta, di interagire col mondo cristiano al livello più alto. Ed è proprio da lì che oggi dobbiamo ripartire», conclude Rosen.

«Baruch abà Shem Ha Shem… Benedetto colui che viene nel nome del Signore…», così esordisce Rav Eugene Korn, professore del Center of Jewish-Christian Understanding and Cooperation, autore di un importante libro, “Ripensare il cristianesimo” (EDB editore). «E’ giunto forse il momento di ripensare il cristianesimo e la teologia cristiana in fatto di ebrei e ebraismo. E questo a partire da Nostra Aetate. Forse davvero possiamo non essere più nemici e porre fine alla guerra ontologica che nella Torà oppose Yaakov e Esaù, simbolicamente gli ebrei e i cristiani -spiega Korn -. «L’immagine corretta invece è quella di Giuseppe che si riconcilia con i suoi fratelli. Non è forse un miracolo questo? Ci sono molti modi di mentire ma un solo modo di dire la verità, scriveva Kierkegaard. Ecco: la dichiarazione Nostra Aetate riconobbe che c’era verità in altre tradizioni religiose e che occorreva dialogare con loro: fu un mutamento radicale, tutti coloro che erano stati considerati nemici della Chiesa, da quel momento cessarono di esserlo. Finì la fissazione cristiana per il proselitismo, finì la prevaricazione millenaria, finì la guerra teologica e fisica che postulava che gli ebrei erano stati ciechi davanti a Gesù, e che erano perciò portatori della maledizione di Caino in quanto deicidi e che proprio per questo avevano perso la loro patria ed erano stati condannati ad errare. Vi ricordo cha ancora nel 1904 Theodor Herzl incontrava Papa Pio X al quale chiese, ingenuamente, sostegno per il suo progetto. Pio X gli risponderà gelido che ahimè non avrebbe potuto supportarlo ma che quando gli ebrei sarebbero arrivati in Palestina avrebbero trovato “noi cristiani, pronti a battezzarvi”. Nostra Aetate ha davvero cambiato tutto, è stata una rivoluzione, la fine di un incubo durato duemila anni. Ma anche noi ebrei dobbiamo liberarci dalle nostre paure e dai pregiudizi verso i cristiani. Le nostre ferite sono ancora profonde e il cambiamento psicologico lungo e difficile. Ma i nostri leader religiosi devono fare la loro parte e capire che i cristiani possono davvero diventare partner. Non solo a livello politico ma anche teologico, partner nell’Alleanza. Che cosa ci unisce? Le sette leggi Noachiche, le Dieci diciture e il patto del Sinai. Un’identità morale, insomma. Per il giudaismo classico invece, è l’idea della Trinità, della violazione dell’unicità di Dio, il Dio incarnato, ciò che è inaccettabile. Ma è il punto di vista che deve cambiare. Il cristianesimo ha contribuito a diffondere la legge morale di Mosè; anche Rav Shimshon Refael Hirsh, nell’Ottocento, arrivò alla stessa conclusione: ovvero che i cristiani proseguono e amplificano la parola della Torà, estendendo il Patto. E’ possibile includere i cristiani nel Patto tra Dio e Mosè? No, non è possibile, per via dell’uso delle immagini sacre e per il fatto che non osservano lo shabbat. Tuttavia la figura di Abramo ci unisce. Quanti cristiani hanno letto Nostra Aetate? Quasi nessuno. Perché? Mi piacerebbe che i cristiani fossero più informati, più consapevoli. Occorre anche una comprensione teologica del ritorno alla terra di Sion: c’è una promessa di Dio ai Patriarchi, in merito. Il mondo cristiano deve accettarlo anche se la cosa crea dei problemi politici, deve accettare la legittimità di Israele a risiedere in quell’angolo di mondo. Senza contare che oggi Israele è l’unico luogo in Medioriente, in cui i cristiani possono essere liberi, vivere e stare in pace», conclude Korn.

«Per Papa Francesco, la Chiesa è come un ospedale da campo, deve curare le ferite. Ecco perchè ci sono tre buone ragioni per camminare nel dialogo. La prima è per rispondere a un imperativo etico e curare le ferite inflitte al popolo ebraico nella sua lunga storia. Il secondo è approfondire la riflessione teologica proposta da Nostra Aetate. Terzo, è il compiere una grande mitzvà, ovvero tenere viva una speranza in un modo dilaniato da confltiti spaventosi». Così parla, in modo appassionato e deciso, Suor Mary Claire Boys, un’autentica autorità del prestigioso Union Theological Seminary. Suor Mary si sofferma sulla «gran quantità di inchiostro teologico versato per capire le Lettere ai Romani di San Paolo. Paolo non sperimentò un conversione bensì una chiamata: parlava di virgulti innestati sullo stesso albero d’ulivo, voleva convertire i gentili e innestarli sulla radice ebraica. Se la Bibbia è il libro della Chiesa, la Chiesa ha il dovere di far conoscere l’Antico Testamento ai suoi fedeli, non solo in una lettura ebraica ma proprio  in un’ottica di dialogo e comprensione di ciò che sono gli ebrei. Solo la conoscenza accorcia e annulla le distanze. Il mondo cristiano deve finalmente uscire da una forma di trionfalismo, da un senso di vanto e superiorità ormai inaccettabili, un peccato di superbia che ha portato solo male. Sono stata nel ghetto di Roma, ho visto la Chiesa dove costringevano gli ebrei ad ascoltare i sermoni per obbligarli a convertirsi, e poi le frasi in ebraico e latino sulla facciata della chiesa. Dobbiamo chiedere scusa una volta per tutte. Papa Francesco ha tra i suoi amici più cari Rav Skorka, rabbino capo di Buenos Aires: se altri Papi avessero avuto amici tra grandi ebrei la storia sarebbe stata diversa. Assistere oggi alla ricchezza del dialogo è una grazia della mia vita.

Ripartire quindi innanzitutto da una lettura più attenta di Nostra Aetate: basta con dei racconti della Passione e dei Farisei che siano sottilmente denigratori, basta con narrazioni dal Vangelo che non tengano conto di un tikkun e della nuova posizione del mondo cristiano. L’accusa di deicidio che sta al centro della storia tormentata tra ebrei e cristiani va resa inaccettabile e sanzionata anche nei ranghi più semplici della Chiesa. Dobbiamo insegnare una conoscenza teologica della morte di Gesù, tornare ai testi storici, inserire la Passione nel suo contesto storico e dire che per i Romani crocifiggere era la norma e che per terrorizzare i popoli conquistati lasciavano i corpi esposti per giorni e giorni. La crocifissione era il terrorismo di stato dell’Impero Romano. Gesù fu crocefisso da Ponzio Pilato insieme alla classe sacerdotale al potere in quel tempo. Ricordiamoci che Gesù non si oppose al giudaismo ma all’Impero Romano che stava opprimendo il Regno di Dio e che voleva sostituirsi ad esso. Oggi i nostri testi stessi testi vanno riletti e scandagliati in modo differente, alla luce della storia. I fondamentalismi radicali oggi sono un pericolo per tutti. Non possiamo esimerci da questa strada, l’unica da percorrere. Magari, come dice il Talmud, non porteremo a termine l’opera ma non possiamo esimerci dal contribuire a costruirla».

(fine)