Il seminario dei Figli della Shoah e Regione Lombardia su come insegnare oggi la Shoah

Fare i conti con la storia e insegnare la Shoah. In Regione Lombardia un seminario per i docenti

Eventi

di Ilaria Ester Ramazzotti
“Fare i conti con la nostra storia”, assicurando con la memoria della Shoah valori e identità al nostro presente e alle prossime generazioni. Un lavoro complesso che l’Associazione Figli della Shoah, lo Yad Vashem di Gerusalemme e la Regione Lombardia hanno proposto nel seminario per i docenti delle scuole, in agenda il 21 febbraio all’auditorium Testori di Palazzo Lombardia in piazza Città di Lombardia a Milano.

Come fare i conti con la nostra storia, come insegnarla e quale didattica della Shoah proporre ai giovani, soprattutto oggi, quando i testimoni diretti di quegli anni ci stanno lasciando? Riflessioni, esperienze e proposte sono state condivise con i 350 docenti presenti a Palazzo Lombardia e con chi ha seguito la diretta streaming dell’evento, disponibile anche su schermo al Memoriale della Shoah di Milano.

“Ci sono vari modi di fare memoria, perché la società cambia. Dobbiamo fare i conti con la storia non per distinguere fra italiani buoni e cattivi, ma per fare chiarezza, per parlare della solidarietà come anche dei fatti bui. Dopo i testimoni diretti, toccherà a noi continuare la trasmissione della memoria”, ha detto Daniela Dana Tedeschi, vicepresidente dell’Associazione Figli della Shoah. Il seminario è stato introdotto dai saluti istituzionali dell’assessore all’Istruzione della Lombardia Melania Rizzoli e del direttore generale dell’Ufficio scolastico lombardo Delia Campanelli.

“La docenza è una delle professioni più nobili – ha sottolineato Campanelli -. Il Giorno della memoria e la trattazione Shoah rappresentano momenti di impegno, ma come e che cosa si vuole insegnare? Come affrontarla? I percorsi tematici intrecciano più discipline e riflessioni sulle tematiche che riguardano la persona. Fondamentale è prevenire ogni sopraffazione, razzismo, discriminazione e promuovere rispetto, cittadinanza attiva e consapevole per un mondo dove non vi sia più spazio per la violenza e l’indifferenza. Un mondo in cui è importante sentirsi comunità, come dice il presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Dove ciascuno di noi sia protagonista del futuro. La sicurezza parte da un ambiente in cui tutti si sentono rispettati. Così lo studio della Shoah significa maturazione civile e intellettuale degli studenti”.

“Ringrazio tutti gli insegnanti perché il Memoriale raggiunge livelli di riconoscibilità e apprezzamento da tutta Italia, con ragazzi che arrivano preparati – ha espresso il presidente del Memoriale della Shoah Roberto Jarach -. C’è bisogno della cultura che promuovete, considerando anche che di recente un direttore di giornale ha definito in modo indegno la Shoah”. Ma la memoria passa anche attraverso i luoghi, come il “Giardino dei Giusti, che non è solo un progetto di architettura, ma un progetto sinergico per lo scopo comune di tutti noi, che a Milano ha trovato genesi”.

“Grazie per costruire una coscienza civile nei ragazzi – ha sottolineato Sira Fatucci dell’UCEI, Unione delle Comunità Ebraiche Italiane -. L’odio razzista non è problema dell’altro, ma di tutti noi”. Inoltre, “la premessa per parlare di Shoah e di ebraismo è far studiare la cultura ebraica, bellissima e piena di tradizioni, che andrebbe approfondita nelle classi. Prima che di Shoah, parliamo di storia”.

 Lo studio dei diari, delle memorie e della percezione delle vittime della Shoah

Anche Iael Nidam Orvieto, dell’Istituto Yad Vashem, ha evidenziato la necessità di studiare la storia a partire dal “bisogno di conoscerla per parlare di coscienza e di responsabilità, poiché gli insegnanti sono insegnanti di vita”. Della storia degli ebrei e dell’Italia “ho scelto di approfondire il tema della percezione delle vittime della Shoah: come hanno percepito il comportamento del loro connazionali, degli italiani? A volte la loro percezione è sbagliata, e lo si evince leggendo diari e lettere”, e le memorie orali o i diari di persone comuni dimostrano percezioni differenti a seconda degli anni in cui sono stati scritti.

Snodi storici fondamentali sono stati la promulgazione delle leggi razziali del 1938 e l’8 settembre 1943. Fino al ’43 “si pensava che la svolta razziale in Italia fosse stata forzata dalla Germania. Una percezione comune fra ebrei come fra tutti gli italiani. Silvia Lombroso, nel suo diario, si chiede come mai persone morali, amici e vicini, scelgano l’indifferenza di spettatori”. Ma si legge anche della solidarietà, dimostrata soprattutto dai ceti sociali non benestanti, perché più si sale, meno c’era solidarietà. E c’era anche la percezione che dopotutto il popolo italiano, il Papa o Mussolini, avrebbero protetto gli ebrei”. “C’erano stati anche parecchi ebrei fascisti che volevano arruolarsi per la patria”.

Dopo il ’43, si diffonde la percezione che il popolo italiano sia contrario all’invasione tedesca, che la Resistenza sia il vero volto dell’Italia, specie nel Nord”. Poi, nei diari, si parla di delusione e della sensazione che ci fossero spie e delatori ovunque. Fra questi, Renzo Levi, nascostosi in un manicomio, e Mario Tagliacozzo, parlano di delazioni per indifferenza o per convenienza. I diari delle vittime e dei testimoni diretti costituiscono così fonti preziose per lo studio della Shoah e risorse per “fare i conti con la nostra storia”.

“È fondamentale mettere al centro la conoscenza della storia – ha detto Valeria Galimi dell’Università di Firenze – per fare i conti con storia e memoria nazionali, non solo delle vittime. Come ricostruire i quadri generali, collettivi? Gli italiani non sono stati spettatori inattivi: quegli eventi si sono svolti in un mondo di relazioni, di sguardi. Non si può più dire che tutti gli italiani siano stati esenti da razzismo o “brava gente”, seppur questa idea sia diffusa. Va messo a fuoco il rapporto fra gli italiani e quelle vicende storiche”. Da qui partono numerose riflessioni, sul rapporto fra italiani e regime fascista, sul pregiudizio antiebraico che va letto nel lungo periodo, poiché le leggi razziali del ’38 furono scritte dopo la diffusione storica di pregiudizi antigiudaici e antiebraici. In che modo poi l’odio è penetrato nell’opinione pubblica italiana? L’entrata in guerra dell’Italia ha attivato una recrudescenza di atti persecutori contro gli ebrei? Senza fare ricorso a categorie fisse, vittime e carnefici, attori e spettatori, in che modo nessuno era uno spettatore passivo?

L’intervento di Liliana Segre

“Il titolo dell’evento di oggi è molto impegnativo per noi italiani, perché non si è mai aperto l’armadio della vergogna, che anzi è rimasto ben custodito – ha detto la senatrice a vita Liliana Segre -. Ci sono stati i passivi, gli indifferenti che non hanno fatto dichiaratamente del male ma che non sono stati in grado di fare una scelta con la loro coscienza. L’hanno lasciata fare agli altri. Poi ci sono stati quelli che la loro scelta l’hanno fatta e l’hanno pagata per anni, oppure quelli che sono stati tranquilli. E c’era chi ha fatto la scelta di stare con i potenti, con vincitori. Tremendi. Quando siamo stati caricati con violenza sui vagoni – ricorda – non sono stati solo i nazisti a insultarci, ma molti anche italiani. Molti di noi si voltavano a guardarli chiedendosi perché lo facessero.

I miei nonni sono stati venduti per 5 mila lire. Non da persone povere che avevano bisogno di quella cifra: i poveri difficilmente tradiscono. Sono state persone vicine. E, tornati a casa dopo la guerra, è stato tragico riconoscere le persone che avevano tradito. Molti personaggi, che già allora erano al vertice di qualche ufficio, dopo la guerra sono diventati presidente della Corte Costituzionale o professori negli atenei. Oggi sia le vittime che i carnefici stanno morendo, ma si vuole fare i conti la nostra storia, per sapere chi ha fatto cosa.

C’erano anche gli antifascisti che hanno fatto scelte eroiche, perché rischiavano la vita, e che ancora oggi con fatica portano avanti la loro scelta con le loro associazioni. E c’erano le famiglie come quelle che mi hanno nascosto, eroiche. Allora non sapevo che chi mi nascondeva rischiasse la vita. Non avevo capito, l’ho capito dopo, e forse nemmeno loro si erano resi conto della loro scelta eroica. Per loro era normale. Non devono essere eroi dimenticati.

Oggi, nell’ambito del negazionismo, ci sono degli anonimi che su internet mi insultano. Sarebbe interessante conoscere chi non crede alle testimonianze di una vecchia. Perché si nega? Perché anche oggi ci sono professori negazionisti nelle università? Perché è più facile: sarebbe molto più bello pensare che i sopravvissuti raccontino una storia falsa. Una storia che poi nessuno ha mai raccontato davvero, perché come disse Primo Levi, Auschwitz è indicibile e mancano le parole per raccontarla. Nella vita è sempre più facile vedere il lato positivo piuttosto che credere a ciò che è accaduto davvero. È più facile pensare che sia tutta una grande bugia.

Domani, a fare i conti con la storia, con i ragazzi che assorbono come carta, ci saranno solo gli insegnanti. Voi siete decisivi. Chi fa l’insegnante per missione è un trampolino di lancio per lo studente. Vi abbraccerei uno per uno”, ha concluso.

“Il mio obiettivo è che voi usciate da qui portandovi dietro delle domande e non delle risposte”, ha detto lo storico David Bidussa nel suo intervento focalizzato su memoria celebrativa, memoria collettiva e memoria autocritica. “Mi preme in particolare la memoria autocritica. La definisco nella forma che mi sembra la più chiara: è quella memoria che si basa sul confronto tra la memoria dei valori a cui dichiariamo di aderire e le azioni e la memoria delle azioni che abbiamo compiuto. Questa seconda parte della memoria, di solito, è la memoria dei torti che abbiamo riservato ad altri e perché. E, soprattutto, se, quando e come, abbiamo iniziato a prendere la misura di questa memoria”. Ma a cosa serve la memoria oggi? Non serve a un “museo, ma a sapere che cosa porteremo nel futuro, qualcosa che racconti tutta la vita di prima. Serve un criterio di scelta su quale scala valoriale dare e quale scenario descrivere. Questa è la sfida di oggi”.

I progetti sulla memoria della Shoah realizzati nelle scuole e la formazione dei docenti allo Yad Vashem

‘Il razzismo in cattedra’ è il progetto didattico realizzato a cura di Sabrina Benussi, docente al Liceo Petrarca di Trieste. Il progetto, interdisciplinare e di alternanza scuola\lavoro, si è svolto in più fasi comprendendo una ricerca storica negli archivi triestini, una mostra, la posa delle prime pietre d’inciampo a Trieste e lo studio sugli studenti espulsi da scuola a causa delle leggi razziali.

Sono state presentate nel corso del convegno anche le esperienze di alcuni docenti che hanno partecipato a seminari estivi presso lo Yad Vashem a Gerusalemme, ricevendo informazioni, buone pratiche e materiali di studio. Sono intervenute Silvia Girolami dell’istituto Luigi Galvani di Milano e Sara del Buono del liceo Quasimodo di Magenta, oltre a Daniela Dana Tedeschi, per l’Associazione Figli della Shoah, che lo scorso 4 marzo ha firmato un protocollo con l’Istituto Yad Vashem e con la Regione Lombardia per organizzare corsi di formazione in Italia e in Israele dedicati agli insegnanti delle scuole italiane.

Le linee guida nazionali per la didattica della Shoah a scuola del Miur

“Non hanno la pretesa di essere esaustive, ma introducono riflessioni su tempi, le motivazioni e le modalità della didattica Shoah” ha spiegato Anna Piperno, dirigente Tecnico del Miur, a proposito delle linee guida sul tema messe online sul sito del Ministero per l’istruzione, l’università e la ricerca.

“Di fondamentale importanza è conoscere la storia degli ebrei nel corso del passato e contestualizzare la Shoah nel percorso storico – ha ribadito Piperno -. Ma anche lavorare contro il pregiudizio senza mai dare nulla per scontato, monitorando sempre il pregiudizio. Mai pensare che basti organizzare una mostra o una lezione sulla Shoah”.