«Sulle mie tele dipingo le diverse età della vita, quando la memoria si dilata e diventa fantasia»

Arte

di Fiona Diwan

Artista figurativo, saggista, studioso di ebraismo, i dipinti di Stefano Levi Della Torre raccontano un’avventura artistica eclettica, alla ricerca di una identità ebraica complessa e ricca di spunti. Oggetti di vita quotidiana, ritratti di amici e persone care, paesaggi, animali, nature morte. Per dare voce a quello che lui chiama “il segreto del banale”. Che banale non è

Ogni età è un’esperienza nuova e oggi, a ottant’anni, Stefano Levi Della Torre osserva i suoi dipinti come se parlassero tra loro, ogni quadro una diversa età della vita, come se le tele dialogassero con una voce che scaturisce dal profondo del tempo che trascorre, e che è trascorso. In effetti, che cos’è la creatività se non dare forma narrativa o visiva alle nostre diverse età della vita, un modo per far dialogare le urgenze tumultuose della giovinezza con la solida determinazione dell’adulto e infine con la quiescenza dell’anziano? «Ogni vita trascorsa è come un tappeto che si è tessuto ma di cui si vede il disegno solo alla fine. La fantasia non è altro che memoria dilatata diceva Giovanbattista Vico, memoria come deposito dove rovistare per tirar fuori figure, combinazioni, sentori, resuscitare reminiscenze, trovare corrispondenze e cercare, grazie alla fantasia, nuove connessioni», spiega Stefano Levi Della Torre, saggista, pensatore e studioso dalle molteplici passioni e interessi (l’ebraismo, la politica, Dante, Leopardi…), pittore e artista poliedrico, torinese che vive a Milano. Opere e quadri per ogni diversa età della vita. Per la precisione, sono sessanta le opere e i numerosi disegni andati di recente in mostra a Torino, alla Fondazione Giorgio Amendola, e presto in arrivo anche a Milano e Roma (catalogo Studio Olimpic Milano, fotografie e grafica Alberto Jona Falco), dipinti che abbracciano la produzione di moltissimi anni, dal 1985 al 2022.

Stretto in una morsa famigliare di modelli e ascendenze alquanto impegnative, Stefano Levi Della Torre si confronta da sempre con la personalità eclettica e sulfurea dello zio scrittore e artista Carlo Levi – fratello del padre -, e con la scrittura asciutta e profonda di Primo Levi, cugino della madre.
«La pittura ha a che fare con la passione del guardare, del capire. Attraverso la pittura riesco a catturare il grande caos della realtà. La pittura ha nutrito la mia scrittura e la mia ‘filosofia’, non viceversa. Penso e scrivo per immagini», spiega.

Una vocazione decisamente figurativa, la sua. Una pennellata mossa, la sfocatura come tecnica per restituire l’intermittenza della memoria, gli affioramenti di ricordi, l’andirivieni dei volti. È il senso del fare pittura come rivelazione, epifania, l’irruzione di qualcosa che non sapevamo di sapere, l’atto del dipingere che ci mostra un aspetto nascosto e in ombra delle cose. Perché in definitiva, suggerisce l’artista, l’argomento della pittura non sono le cose e i fatti, ma la nostra esperienza di essi.
Ritratti di persone amate e conosciute, oggetti della vita quotidiana, stanze vuote, muri scrostati, porte chiuse da cui sfugge una luce che ne definisce il mistero, finestre aperte su un tempo sospeso, forse un languido pomeriggio d’estate. E poi conchiglie, frutta e animali: pecore, polli, galline, scimmie, pesci, mucche e tori, creature inermi, sommerse e salvate né più né meno che noi umani in balia del capriccio della sorte. Destino umano riflesso nel fragile destino animale. È il caso, ad esempio, dello splendido ritratto di un toro che fa da copertina al catalogo. «L’immagine possente del toro, il suo sguardo che si volge per vedere chi arriva. La luce radente che ne accarezza la superficie e che fa emergere la massa poderosa dell’animale. Ecco, è lo sguardo del toro a commuovermi, insieme alla pacifica robustezza di questa immensità carnale. M’interessa capire quello che combina la luce radente su quel corpo, come agisce quella luce sulle superfici, come ad esempio accade con la luce delle Chanukkiot, candele sacre sulle superfici dei mobili e degli oggetti in una stanza. Le cose si rivelano a noi solo lacerando lo sguardo dell’abitudine».

Lo spazio bianco tra le parole, il margine bianco su cui azzardare un’altra interpretazione, un’altra storia. Levi Della Torre ha sempre amato il disegno, il confine che definisce il perimetro delle cose, ciò che evidenzia la linea di demarcazione tra gli oggetti e il loro esistere quotidiano: una porta, un armadio, una finestra, un frutto, una conchiglia vista di profilo e di fronte, un animale che ti osserva enigmatico, una lavatrice aperta con il bucato pronto per essere steso, un lenzuolo spiegazzato sul letto su cui si deposita la traccia del corpo che lo ha appena lasciato… Ogni soggetto ritratto è come un nucleo semantico che si espande, che esplode e si rivela in modo nuovo. Come ad esempio accade nella poesia di Giacomo Leopardi, in cui la parola tende a sfocarsi nei suoi margini per acquisire innumerevoli possibilità di senso. Insomma, la pittura che cattura l’apparire delle cose come una forma di rivelazione, un’epifania. «Mi interessano le cose quotidiane, gli oggetti-non-strani che si rivelano all’improvviso, il segreto di qualcosa di apparentemente banale, che sembra ovvio, ma che si rivela come qualcosa di sorprendente. Appunto, un armadio, una porta, ‘il segreto del banale’ ma che banale non è per nulla. Mi interessa capire come si rivelano le cose, la loro molteplicità inafferrabile tanto cara a Gianlorenzo Bernini che scolpiva il marmo in modo da renderlo a tal punto mosso da diventare una massa astratta. È l’enigma dell’evidenza tanto cara a Caravaggio. Le cose si rivelano solo lacerando il velo dell’ovvio, dell’abitudine, appunto: ecco allora che una libreria può diventare una sorta di paesaggio, un’architettura, cambiare segno nel momento in cui muta l’inquadratura. È l’importanza del taglio dell’immagine, la scelta di ciò che entra dentro il quadro e di ciò che invece ne resta fuori, la magia dell’inquadratura», spiega Levi Della Torre. «L’espansione del significato: che cosa c’è di più ebraico? Qualcosa che a partire da un versetto si espande nell’immaginazione e nell’intelletto, come accade nei trattati talmudici. L’esplosione della parola in mille schegge di significato, come nelle parole dei testi della tradizione ebraica».

«Mi piacciono le cose che ricordano anche qualcos’altro per implicite corrispondenze, per associazioni di idee e di sensazioni», conclude Levi Della Torre. È l’idea della persistenza della memoria, degli oggetti in disfacimento che sembrano conservare il ricordo della loro giovinezza, di un passato che non passa. E che si imprime nel segno pittorico, ostinandosi nel voler durare.