Julia Pirotte, una fotografa impegnata. Una mostra al Mémorial de la Shoah di Parigi

Arte

di Sonia Schoonejans e Andrea Finzi
Se Julia Pirotte è conosciuta per i suoi reportages realizzati durante la Seconda Guerra Mondiale, il suo lavoro fotografico degli Anni ’30 e del dopoguerra lo sono molto meno. L’estesa retrospettiva della sua opera, in mostra al Mémorial de la Shoah di Parigi fino al 12 novembre costituisce per questo motivo una mostra importante. Un centinaio di fotografie, la maggior parte originali, estratti di interviste alla fotografa e documenti inediti prestati da diverse istituzioni, aiutano a meglio comprendere la vita di questa protagonista e testimone del suo secolo.

 

Julia Pirotte

 

Il suo vero nome è Golda Perla Diamnent e nasce nel 1907 in Polonia in una famiglia ebraica molto modesta. Impegnata nella gioventù comunista polacca, viene arrestata a 17 anni e passa quattro anni in prigione prima di lasciare la Polonia per raggiungere sua sorella, emigrata in Francia. Ammalatasi lungo il percorso, si ferma in Belgio dove lavora come operaia mentre studia la fotografia. Si sposa col sindacalista Jean Pirotte, del quale manterrà il cognome. Qui farà un altro incontro fondamentale per la sua carriera: Susanne Spaak, una giovane Signora appartenente alla grande borghesia belga, che scopre il suo talento di fotografa e la spinge a farne il suo mestiere. Il piccolo apparecchio Leica che le regala seguirà Julia Pirotte per tutta la vita e sarà il suo principale strumento di lavoro.

Dal 1938 realizza reportages per riviste e agenzie di stampa, in particolare Foto Waro, principalmente  su argomenti sociali o politici come l’inchiesta sugli emigrati polacchi venuti a lavorare nelle miniere di carbone di Charleroi o la missione fotografica nei Paesi baltici ove si interessa soprattutto alle persone di modesta condizione. Quando, nel 1940, le armate naziste invadono il Belgio, prende la via dell’esodo portando nel suo zaino soltanto la sua Leica e il suo ingranditore fotografico. Lavora qualche mese per le fabbriche di armamenti a Marsiglia. Attiva nella Resistenza fin dai primi giorni della guerra, diventa agente di collegamento, trasporta materiale di propaganda e armi.  Produce anche documenti falsi per I resistenti che vivono in clandestinità.

Durante la guerra, fotografa quasi senza sosta perché, come testimonierà più tardi, pensava che non sarebbe sopravvissuta alla Shoah. Fra i reportages che realizza come inviata per il settimanale Dimanche illustré figura quello sulla vita quotidiana all’Hotel Marseille, un campo dove sono concentrate, a partire dal 1940, le donne straniere con i loro bambini. Le foto sono ancora più sconvolgenti quando si sa che la maggior parte di questi innocenti saranno deportati ed assassinati ad Auschwitz due anni più tardi.

Il 21 agosto 1944, Julia Pirotte partecipa all’insurrezione di Marsiglia ed alla liberazione della città. Le sue foto testimoniano la lotta degli insorti, l’entrata degli Alleati a Marsiglia e le feste della Liberazione. Dopo la guerra, continua per qualche mese a lavorare per diversi quotidiani di cui i nomi  sottolineano le sue idee: Combattre, La Marseillaise, Rouge Midi.

Nel 1946 ritorna in Polonia ove non può che constatare la scomparsa della sua famiglia e della maggior parte dei suoi amici. Fotografa le rovine del ghetto di Varsavia. Lo stesso anno, testimonia il pogrom di Kielce, prova del tenace antisemitismo nel suo Paese: sono queste le foto più commoventi di tutta l’esposizione.

Però Julia Pirotte rimane in Polonia e si installa a Varsavia, città della sua infanzia, dove crea un’agenzia di stampa, la Walf. Sempre militante ed impegnata a denunciare la guerra, lo sfruttamento, la povertà, mette la sua intensa attività fotografica sopratutto al servizio delle cause che difende.

Nel 1967, durante un lungo viaggio in Israele, si interessa e visita i kibbutzim dove realizza una serie di ritratti, principalmente di lavoratori, operai, gente semplici.

Nel 1990 Julia Pirotte affida la sua opera al Museo della Fotografia di Charleroi (Belgio), un gesto che si può interpretare come un omaggio al Paese che ha visto gli inizi della sua carriera.

Dieci anni dopo, muore a Varsavia all’età di 92 anni senza mai aver rinunciato al suo ideale comunista.