“Sculture a cui capita di essere fotografie”

Arte

Elad Lassry, fino alla scorsa settimana, quando ha aperto la mostra al PAC di Milano, era un nome noto fra gli addetti ai lavori senz’altro; fra coloro che seguono giorno per giorno le nuove tendenze dell’arte contemporanea, di certo; ma, fra il grande pubblico? Quanti sapevano delle sculture, dei film, delle immagini di Elad Lassry?

Ecco se c’è un merito di questa grande mostra milanese, inaugurata lo scorso 6 luglio e aperta fino al 16 settembre, è proprio quello di portare fra i comuni mortali la complessa riflessione artistica di  questo artista, israeliano di nascita e americano di Los Angeles, per lavoro e forse anche un po’ per vocazione – Los Angeles, ha confessato ad un’insolito Maurizio Cattelan intervistatore, ha “l’atmosfera rilassata” adatta alla sua “routine rigida di lavoro”.

Nella mostra del trentacinque Lassry, il titolo appare già come una dichiarazione di poetica, “Verso una nuova immagine”. Lassry infatti più che un artista nel senso e nell’immagine classica del termine, ci appare come un filosofo – un filosofo dell’immagine – e capire il senso delle sue opere, senza l’adeguata preparazione e presentazione del curatore, Alessandro Rabottini, è davvero difficile.

La definizione che Lassry stesso offre delle sue opere è per molti aspetti emblematica, “sculture a cui capita di essere fotografie” – e potremmo aggiungere anche “film a cui potrebbe capitare di essere fotografie”. Questa definizione, a noi che abbiamo visto la mostra, appare la migliore sintesi dell’intero complesso di opere esposte al PAC. Le foto – piuttosto banali, di gusto pubblicitario, volutamente scattate sotto l’effetto di luci che trasformano irrimediabilmente i soggetti in oggetti, sono presentate dentro cornici dello stesso identico colore degli sfondi delle immagini. Contenuto e contenitore così diventano tutt’uno, sono quell’opera che lo sguardo di chi osserva trasfigura in un nuovo significato, diverso da quello originario. “Le sue sono immagini attentamente costruite, vere e proprie messe in scena che hanno a che fare con il linguaggio fotografico solo in parte” spiega Rabottini. E continua: “il medium fotografico infatti è soltanto uno degli aspetti che concorrono alla formalizzazione ultima del lavoro, all’interno del quale tanto la costruzione dell’immagine quanto la sua percezione diventano momenti di analisi”.

Il tema della percezione è centrale nell’opera di Lassry, anzi gran parte del suo lavoro conferma Rabottino consiste in una riflessione “sull’atto del vedere, sulla “costruzione della rappresentazione e su come noi stessi guardiamo le immagini, proiettando su di esse significati che sono loro estranei e che provengono dalla nostra stessa esperienza autobiografica e culturale”.

L’arte di Lassry sembra essere quella di tradurre in opera, in manifestazione artistica la sua personale riflessione sulla percezione ovvero sul rapporto che si stabilisce fra l’immagine e chi osserva. La sintesi forse più chiara di questa idea la si ritrova in due delle sculture esposte a Milano, Rosewood Cabinet e Untitled (Light Brown Cabinet). Per l’osservatore impreparato queste due opere hanno tutto l’aspetto di due armadietti/vetrinette in legno da parete. Osservandoli nel contesto dell’esposizione, osservandone bene le dimensioni, i materiali, è chiaro prò che esse sono la continuazione del resto delle immagini allineate sulle pareti delle sale espositive. I due Cabinets sono realizzati con lo stesso materiale delle cornici usate per le immagini, solodi dimensione leggermente più grande – come se fossero state pensate proprio per ospitare delle immagini. La presenza di una vetrina poi fa pensare non tanto alla vetrina, ma all’assenza, al vuoto dell’immagine. La forma, i materiali, il contesto identici in tutto e per tutto a quelli delle immagini incorniciati, ci hanno indotto a privare i cabinets del loro significato originario di oggetti funzionali.

O meglio ancora, come dice sempre Rabottino, l’aspetto di oggetti “funzionali” che essi mantengono è parte integrante del loro significato. Il concetto di funzionalità anzi è centrale nel lavoro di Lassry, speiga Rabottino. La sua infatti è una riflessione “sull’ambiguità del concetto di funzionalità”. Se le immagini – sia quelle “trovate” sia quelle fotografiche – sono state volutamente private del loro significato comunicativo originario, anche le sculture – i cabinets, in questo caso – hanno subito lo stesso processo di privazione del significato. Ancora una volta, osserva Rabottino “siamo di fronte a un’oscillazione di percezione e di significato tra il dispositivo della cornice e quello della vetrina, tra l’immagine, la sua assenza e la sua articolazione nello spazio”.

I film sono l’altra importante presenza di questa mostra. 15, 11, 5 ore di riprese in 16 mm. Il formato, la dimensione con cui le immagini vengono proiettate è molto simile a quelle delle cornici e delle sculture. E i soggetti ripresi – le righe di una zebra, un corpo di ballerini di danza moderna; e ancora uomini, donne ripresi in primo piano su sfondi monocromi – fanno pensare a fotografie in movimento, più che a film. Ogni fotogramma potrebbe diventare ( e di fatto, diventano) una delle immagini incorniciate che stanno a fianco della proiezione. E la mancanza assoluta di sonoro, contribuisce ad accrescere questa sensazione.

Lassry, nonostante sia indubbiamente giovane, è oggi considerato non un astro nascente, bensì una stella già affermata del panorama artistico contemporaneo. E il fatto che sul sito del MOMA di New York ci sia una pagina di profilo a lui dedicata è quasi un suggello della sua raggiunta maturità artistica.

Lassry ha realizzato mostre personali nei più importanti musei di tutto il mondo dal Whitney Museum of American Art di New York, alla Kunsthalle di Zurigo, al Contemporary Art Museum di St. Louis. In Italia si è fatto conoscere grazie soprattutto alla partecipazione all’ultima edizione della Biennale di Venezia. Larssy inoltre ha esposto in mostre collettive al MoMa e al New Museum di New York, alla Schirn Kunsthalle di Francoforte, al CAPC di Bordeaux, e all’Institute of Contemporary Art di Philadelphia.

A guardare questo elenco, i soli 35 anni di età di Lassry appaiono come qualcosa di stupefacente – qualcosa che in Italia, dove un 35enne è considerato alla pari di un adolescente, non può che suscitare anche un pò di invidia… A Maurizio Cattelan che due anni fa (all’epoca della Biennale di Venezia) gli chiedeva se a trentatre anni si sentiva vecchio, rispose: “Di recente mia madre in Israele mi ha detto che lo sono sempre stato, fin da quando ero un bambino… Mi ricordo che da bambino mi sentivo leggermente più vecchio dei miei coetanei, che chiedevano di avere le caramelle, mentre io volevo sempre la frutta secca.”

ELAD LASSRY. Verso una nuova immagine
PAC – Milano
Via Palestro 14
6 luglio – 16 settembre
Lunedì 14.30- 19.30
Martedì-Domenica, 9.30 alle 19.30,
Ingresso libero