Io, ebreo di Milano e la mia vita dall’altra parte del mondo

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di Ilaria Myr

C’è Meir che, nella  Cina profonda, riesce a osservare la kasherut, le feste ebraiche e a studiare Torà. C’è Daniel che, a Nottingham, ha trovato un ambiente ebraico freddo e poco ospitale. Ma anche dall’altra parte del mondo, a Panama, Filippo non è stato accolto bene nella molto organizzata ma altrettanto chiusa comunità ebraica locale. Katia invece, a Dublino, ha migliorato il suo ebraico e ha persino imparato a fare la challà. E Alberto, nell’Australia dell’outback selvaggio, ha trovato chi, da Brisbane, gli manda libri sull’ebraismo per i bambini…Sono tante e diverse le storie degli ebrei milanesi che, per vari motivi – per lavoro, per studio, per amore – hanno lasciato la propria città per stabilirsi altrove. Ma cosa succede se si va a vivere in luoghi molto lontani dal proprio Paese di origine? Nazioni in cui non esiste una Comunità ebraica, oppure dove quella che c’è è molto differente da quella che si conosce? L’identità si rafforza o, al contrario, si indebolisce quando vengono meno i punti di riferimento a cui si è stati abituati per anni? La parola ai diretti interessati, milanesi in “diaspora”, tra nostalgia, voglia di casa o, viceversa, nessun rimpianto.

PANAMA

A Panama Filippo Costi arriva sette anni fa, dopo avere vissuto a New York, Madrid e Caracas. Classe 1961, Filippo fa tutto il corso di studi alla Scuola ebraica di Milano, frequenta l’Hashomer Hatzair ed è molto attivo nelle organizzazioni giovanili nazionali e internazionali. «Ho partecipato a un paio di convegni europei del Joint per Young Leadership – spiega – ; ho inoltre realizzato la grafica della campagna a favore degli ebrei russi durante le olimpiadi russe a Mosca. Mentre durante la Guerra del Golfo, con il Ministero del Turismo Israeliano, ho organizzato un viaggio in Israele in appoggio al Paese, coinvolgendo 500 persone fra amici, politici e personalità pubbliche».

Arrivato a Panama, Filippo incontra una realtà ebraica diversa da quella di Milano, che pur non vantando grossi numeri – 10.000 persone su oltre 3 milioni di abitanti nel Paese – si presenta molto forte e ben organizzata al suo interno. La compongono due gruppi principali: quello sefardita, il più rappresentato, e quello askenazita. A questi si aggiunge un nucleo Reform in cui convergono famiglie in qualche modo assimilate o nuovi venuti non accettati dalla Comunità ortodossa. «Qui le varie organizzazioni ebraiche hanno contribuito molto allo sviluppo del Paese, – continua Filippo – adoperandosi in aiuto della popolazione locale meno fortunata e sostenendo alcune iniziative civiche, come il nuovo museo della biodiversità progettato da Frank Gehry, che sarà inaugurato quest’anno. Questo fa sì che vi sia un grande rispetto per la comunità ebraica e che si possa circolare per strada con kippà e zizzit fuori dalla camicia senza che nessuno ti guardi stralunato (come invece accade a Milano…)».

A livello di servizi ebraici, poi, a Panama c’è l’imbarazzo della scelta: sei sinagoghe, quattro scuole ebraiche, che complessivamente educano 1300 bambini, due cimiteri, due grandi supermercati kasher, un club con quattro ristoranti e sale per feste, e fuori dalla città un Club con piscine e attività per bambini. Una comunità coesa, organizzata e molto viva, quella di Panama, che ha tutte le possibilità per essere calorosa e accogliente. Ma la realtà è ben diversa da quello che sembra, nota amaramente Costi: appena arrivato, Filippo si trova davanti a un mondo esclusivista e chiuso, che lo taglia letteralmente fuori. «Avevo un conoscente che mi facilitò l’entrata alla sinagoga – spiega Costi -. Ma poi, però, dato che mia moglie non è ebrea, mi hanno di fatto impedito di partecipare alla Comunità cui sono più affine, quella sefardita: mi è stato detto che se volevo iscrivermi dovevo sbattere fuori casa moglie e figlia o andare dai Reform, in cui tuttavia non mi riconosco. Alla richiesta di iscrivere mia figlia alla scuola ebraica mi è stato chiesto: “secondo te, in un cesto di mele quelle sane possono rendere sana una marcia?, o è il contrario?”. Immaginerete la mia reazione…». Un ambiente, dunque, molto diverso da quello di Milano, dove Filippo è cresciuto «nell’insegnamento che si doveva rispettare ogni correligionario e fare di tutto, in ogni momento, per accogliere i vari gruppi che arrivavano – continua -: gli egiziani come i libici, i persiani come i libanesi. Qui a Panama, invece, se non segui le regole della Comunità più forte – quella “halabì”, gli aleppini – sei “out”».

CINA

Da un storia di esclusione a una di integrazione: è quella di Meir Sasson, che dal 2009 vive con moglie e due figli a Shenzen, in Cina, città con 20 milioni di abitanti. Classe 1976, nato e cresciuto a Milano, dove ha frequentato la scuola della Comunità, Meir ha trovato in Cina una dimensione ebraica che lo soddisfa. «Qui esiste una Comunità ebraica composta da 400 persone, quasi tutti israeliani – spiega -, che vivono nello stesso quartiere. Grazie al Beit Chabad c’è un asilo ebraico e viene fornita la carne kasher, acquistata o da Hong Kong o da Shanghai. Gli shabbatot e i haghim sono festeggiati al tempio, dove sono offerti anche i pasti. Capita poi spesso che per le festività sbarchino in casa, senza invito, persone sconosciute: siamo in Cina ed è nostro dovere tenere le porte aperte a chi ne abbia bisogno». Quella di Shenzen è dunque una comunità piccola ma organizzata, dove Meir e la sua famiglia possono osservare lo Shabbat, la kasherut e studiare Torà quasi tutti i giorni. Manca però una scuola, dove i figli possono ricevere un’educazione ebraica. «Prima o poi mi trasferirò a Hong Kong – confessa -, l’unica comunità che ha una scuola ebraica che va dalle elementari alle superiori». Del resto, lasciare un luogo per andare in un altro non è un problema per Meir, che rifiuta categoricamente l’idea che la lontananza dal proprio Paese di origine crei un legame maggiore con l’ebraismo. «Lontananza da dove? – chiede -. L’Italia non è il Paese degli ebrei, né il Paese di mio padre, e neppure il Paese di mio padre era il suo. L’ebreo in quanto tale non ha una terra: quando ce l’ha è Israele, e allora diventa un israeliano».

AUSTRALIA

Ora un salto in Oceania, dove Alberto Treves vive con la sua famiglia, da qualche mese. Non però a Sidney o a Melbourne, dove esistono forti comunità ebraiche, bensì a Chinchilla: una cittadina nella regione del Queensland, agli estremi orientali dell’Australia, la cui popolazione è “esplosa” con il boom del gas naturale, raggiungendo le 12.000 persone. «Qui non c’è praticamente niente: due supermercati, tre pub, e basta – spiega Alberto -. Brisbane è a 300 km da qui, a quattro ore di macchina, mentre per andare dal medico si deve andare a Towwomba, a due ore di strada».

Un luogo dunque isolato, inesistente dal punto di vista ebraico, certamente molto diverso dalla realtà milanese in cui Alberto, classe 1968, è cresciuto: una vita alla Scuola ebraica, poi l’Hashomer Hatzair, fondamentale per la sua formazione laica e sionista, e un passaggio al Dor Hemshech. Queste le tappe di un ebraismo milanese impegnato e attivo che, una volta iniziato a lavorare e a viaggiare all’estero, rallenta.

Eppure, nonostante l’oggettivo isolamento di Chinchilla dai centri in cui esiste una vita ebraica, Alberto è riuscito a trovare il modo per dare un’educazione ebraica alla figlia Vittoria. «Anche se sono totalmente laico, tengo profondamente alla mia identità ebraica – continua -. Tramite gli ebrei progressisti di Brisbane ho quindi contattato una signora, Sheila Levine, che periodicamente mi invia dei libri in cui si spiega l’ebraismo ai bambini. E poi cerchiamo di festeggiare le feste più importanti e di fare il kiddush ogni venerdì sera. Che cosa mi manca della vita ebraica di Milano? Sicuramente le feste della scuola e i ritrovi di kvutzà con i Reshafim e gli Hazorea, i balli israeliani, Kippur e Rosh Hashanà al tempio, dove rivedo volentieri amici di vecchia data».

Poco è meglio di niente: soprattutto se in precedenza, per due anni, hai dovuto nascondere la tua identità di ebreo. Per un biennio, infatti, Alberto ha lavorato in Iraq, mentre la famiglia è rimasta a Londra, dove vivevano fino ad allora. La vita in Iraq non è certo facile per un occidentale: si vive chiusi in compound, si circola con macchine blindate e scorta, non si può mai uscire. Figurarsi per un occidentale ebreo. «Ho vissuto come un marrano. Non potevo né dire né fare niente di ebraico: addirittura, il venerdì sera, con mia moglie al telefono usavamo un codice. “Hai giocato al calcio balilla?” voleva dire “Shabbat Shalom”….».

NOTTINGHAM

Ma anche restando in Europa, un ebreo milanese può avere difficoltà a trovare la sua dimensione ebraica. È il caso di Daniel Soria (classe 1980) che dal 2006 vive a Nottingham, nel Regno Unito. Fino ad allora, a Milano, frequenta l’Hashomer Hatzair, di cui diventa anche shlichon, dopo un anno in Israele. «Per anni ho mantenuti forti legami con i compagni di kvutzà – spiega -, che rimangono dei punti fermi nelle nostre vite. Si era anche costituito un gruppo di ex-bogrim, “shomrim lashalom”, che organizzava attività per giovani dopo l’uscita dal movimento. Ma poi ho deciso di partire, e mi sono pian piano allontanato dalla vita comunitaria».

A Nottingham, dove Daniel va a fareil dottorato, esistono due comunità: una molto religiosa e un’altra liberal/reform (Nottingham Progressive Jewish Congregation. «Durante il mio dottorato (2006-2009) ho cercato di far parte della Jewish Society dell’università (le societies sono piccoli gruppi formati e diretti dagli studenti stessi, ndr) – spiega Daniel -. Ogni tanto organizzavano cene a casa di un rabbino e la prima attività a cui partecipai fu un cineforum: alla fine del film cercai qualcuno a cui presentarmi, ma l’accoglienza fu tremendamente fredda, mi misi a disposizione per fare qualche ballo israeliano ma non furono minimamente interessati. Mi sembrò che non essendo inglese fossero tutti molto scettici nei miei confronti. Ne fui alquanto deluso e smisi di interessarmi alla Jewish society». Una volta, poi, Daniel viene invitato al seder di Pesach da un suo professore che frequenta la comunità reform/liberal. «Per me abituato all’ebraismo italiano è stato uno shock. Innanzitutto tutto il seder era condotto da una donna, e poi era intervallato da una sorta di “pub-quiz”, in cui ogni famiglia doveva rispondere a domande inerenti Pesach. Anche l’Haggadà aveva un ordine diverso dal solito (ma la parola Seder non vuol dire ordine)?».

Nonostante le difficoltà, Daniel cerca di portare avanti le tradizioni di famiglia, anche se durante le feste ebraiche cresce la nostalgia di casa e il senso di essere solo nella sua ebraicità. «Mi manca il poter festeggiare in famiglia – confessa -. Non avendo alcun legame con ebrei che vivono qui, è anche difficile tenermi aggiornato sulle iniziative che vengono organizzate, un seder di Pesach comunitario  a cui poter partecipare nel caso in ui non riesca a tornare a Milano».

DUBLINO

Da Nottingham a Dublino, la distanza geografica non è molta. Ma la differenza sul fronte dell’organizzazione ebraica è invece abissale: accoglienza e integrazione sono infatti le parole chiave della vita ebraica nella capitale irlandese, dove vive da tre anni e mezzo Katia Moscato, classe 1972, frequentatrice della scuola ebraica e dell’Hashomer Hatzair. «Arrivata in Irlanda sono rimasta molto stupita: credevo fosse una comunità morta, e invece mi sono dovuta ricredere – confessa -. È una realtà più viva che mai ed in continua evoluzione. Rispetto all’Italia ho trovato molte meno divisioni, ma penso che sia normale, considerate le diverse dimensioni delle due comunità». In effetti, il nucleo di ebrei locali, che da secoli risiedono nella città – storicamente nel quartiere di Portobello, dove sorge oggi il Museo ebraico – è oggi costituito prevalentemente da anziani o persone di mezza età. A loro però si sono aggiunti dal 2006 molti giovani e famiglie straniere venute in Irlanda per lavorare. «Dublino è diventata la Silicon Valley d’Europa con i quartieri generali europei di grandi aziende come Google, eBay, Facebook, Yahoo!, dove lavoro io, Intel, e altre – continua Katia -. Per accogliere tutti, nel 2007 la vecchia casa di riposo ebraica era stata addirittura adibita a dormitorio per studenti ebrei, e veniva chiamata appunto “Bait Hayehudi”: qui studenti e giovani professionisti si incontravano tutti i venerdì per fare la Kaballat Shabbat. Nel 2012 però è stata chiusa per mancanza di fondi, e purtroppo non abbiamo più un luogo di incontro fisso». Una grande vitalità viene però data dal giovane rabbino Chabad, rav Zalman Lent, e da sua moglie, che per ogni festività organizzano qualcosa nel tempio centrale, coinvolgendo gli stranieri ebrei e gli israeliani. E poi c’è l’ambasciata israeliana, che ha portato nel cinema centrale della città un festival del cinema israeliano. Nonostante vi siano in tutto tre sinagoghe nella città, la vita ebraica ruota intorno a quella centrale: è nella sala adiacente, dotata anche di cucina, che vengono organizzate la maggior parte delle attività. « Non è possibile paragonare la vita ebraica milanese con quella di Dublino: sono due realtà completamente diverse – commenta Katia –. Qui non c’è spazio per divisioni o intolleranze: essendo la comunità molto piccola, dobbiamo essere molto aperti e tolleranti, per spronare la gente a partecipare. Questo approccio è senza dubbio premiante: grande infatti è il coinvolgimento di israeliani, studenti e gente venuta da fuori come me ai vari eventi ebraici. Perché un ebreo lontano da casa ha bisogno di trovare una comunità, delle attività e dei luoghi d’incontro. E qui ci sono».

Ultimamente, poi, le autorità governative stanno dimostrando grande interesse nei confronti della vita ebraica a Dublino. In quest’ottica devono essere viste la visita alla sinagoga del presidente Michael Higgins poco dopo la sua elezione nel 2011, l’organizzazione da parte della municipalità di una cerimonia di accensione delle candele di Channukkà e la decisione di ampliare nel prossimo futuro il Museo ebraico di Portobello.

Le occasioni per in contrarsi dunque non mancano. «Di recente è stata anche organizzata una serata per insegnare alle donne a fare la challà. Eravamo almeno 60 tra israeliani, ebree irlandesi e straniere. Ognuna ha ricevuto un kit con gli ingredienti, il grembiulino, i guanti ….e tutte ad impastare! Non mi sarei mai immaginata che avrei imparato a fare la challà proprio in Irlanda! E ancora più sorprendente è che proprio qui ho migliorato il mio ebraico!». Ma un po’ di nostalgia per la Milano ebraica? «Di Milano mi mancano i negozi dove comprare prodotti israeliani e kasher, che qui difficilmente si trovano –. E poi, se fossi adolescente probabilmente sentirei la mancanza dei movimenti giovanili, che qui non ci sono. Ma per me quel tempo è passato… ».