Walker Meghnagi: «Una nuova maggioranza per governare insieme. E dialogare»

di Fiona Diwan

Parla in nuovo Presidente della Comunità di Milano. Combattere il calo dei votanti e degli iscritti. Agire con una task force che coinvolga i giovani e li renda protagonisti della vita comunitaria. “Agganciare” i 300 ragazzi israeliani che vivono a Milano. Rafforzare i Servizi Sociali, la Scuola, il Rabbinato. Quella di Beyahad è una vittoria di misura che sollecita la ricerca di un’alleanza tra le parti. Un rapporto tra gli schieramenti che va rifondato, tralasciando le vecchie ruggini, dichiara il neo Presidente. Per una Comunità inclusiva e accogliente. «Perché andare d’accordo è un dovere civile e morale»

«Sono un inguaribile ottimista. Ho sempre pensato che insieme si vince e noi intendiamo coinvolgere tutti i neo-eletti. Per raggiungere gli obiettivi che ci siamo dati abbiamo bisogno gli uni degli altri. La mia è un’idea di Comunità inclusiva, accogliente, capace di fornire risposte alle istanze degli iscritti in tempi ragionevoli e non biblici. Inoltre: il rapporto tra gli schieramenti in campo va rifondato, dobbiamo passare un colpo di spugna sul passato e guardare avanti, tralasciando le vecchie ruggini; senza contare che questa è una “vittoria dimezzata” e che Beyahad e Milano Ebraica sono venuti fuori da questo confronto elettorale quasi alla pari, nove a otto. Una vittoria risicata non ha alcun senso, vuole dire spaccare la comunità. Confermo quindi quello che ho detto all’Assemblea pre-elettorale del 5 ottobre: proporremo a Milano Ebraica di stringere un’alleanza, non so ancora in che termini ma lo faremo». Così parla il neo Presidente Walker Meghnagi, capolista di Beyahad, all’indomani del voto, ancora una volta alla guida della Comunità ed eletto per la seconda volta negli ultimi dieci anni (la prima alle elezioni del 2012).

Governare cercando di mettere da parte astiosità e motivi di scontro, condividendo strategie e obiettivi. «Occorre lavorare su dei punti che vadano bene a entrambe le parti e soprattutto lasciare la politica fuori dalla Comunità. È la politica, come ho sempre detto, che ci rovina, un elemento inquinante che uccide lo spirito di gruppo, le intenzionalità condivise, il senso di essere Comunità. Ricordiamoci che siamo in pochi e che per tenere alta la nostra bandiera dobbiamo essere uniti. Oggi, la parola d’ordine è dialogo. Dialogo interno ed esterno; tuttavia, dialogo significa innanzitutto restare in ascolto di quanto le strutture comunitarie hanno da dirci (scuola, rabbinato, casa di riposo…), cercare di capire le problematiche e solo dopo aver ascoltato condividere le decisioni; e poi, naturalmente, il dialogo con l’UCEI e le istituzioni del Paese. Insomma, basta con le contrapposizioni binarie e con la polarizzazione violenta, è tempo di dialogo».

Ma andando al sodo, quali le questioni oggi più urgenti sul tappeto? «Quello che più mi spaventa è il calo dei votanti e degli iscritti: bisogna recuperare quelle mille persone circa che non sono in Comunità e che non hanno votato, una piccola galassia periferica ebraica che esiste e che va contattata e “riconnessa”». Quali quindi i fronti principali da cui iniziare a lavorare? Innanzitutto i giovani a cui, finito il liceo, la Comunità offre poco. «Innalzare il sostegno e il contributo economico ai movimenti giovanili. Creare un luogo d’incontro: oggi ad esempio, so che molti ragazzi si raggruppano per strada, in piazza Sicilia o piazza Piemonte, dove capita di vedere capannelli con i nostri giovani. Ecco, ci vorrebbe un luogo fisico vero e proprio; incontrarsi per strada francamente non mi sembra la soluzione alla domanda di aggregazione e al problema di facilitare scambi e incontri in un’atmosfera rilassata e conviviale. Inoltre dovremmo pensare anche a degli interscambi tra i giovani di altre comunità, con i ragazzi di Torino, Firenze, Roma…, in modo da rimescolare le carte e rendere tutto più vivace. Per questo sarebbe importante un supporto dell’Ucei che finanzi i giovani in tutte le comunità italiane, soprattutto quelle più piccole». Senza dimenticare, puntualizza Meghnagi, gli oltre 300 giovani israeliani che per motivi di studio o di lavoro vivono a Milano e che a volte ignorano persino l’esistenza della Comunità: anch’essi vanno contattati, coinvolti e invitati, una presenza importante, una vivificante ventata d’Israele sotto il Duomo, una presenza che va valorizzata.

Meghnagi sottolinea la volontà di rafforzare e irrobustire le risorse dei Servizi Sociali con raccolte fondi specifiche e mirate per sostenere chi ha più bisogno, anziani o famiglie il cui padre è rimasto senza lavoro a causa del Covid. «Mi piacerebbe separare la gestione della Residenza Anziani dai Servizi Sociali veri e propri, penso siano due realtà diverse, che non vadano accorpate. Sarebbe anche importante riattivare il volontariato tra i ragazzi più giovani, impegnati al liceo o all’università: l’aiuto agli anziani e agli ammalati è una pratica altamente formativa, ci educa al senso degli altri, al rispetto della fragilità e soprattutto all’ascolto. In merito ad alcuni ambiti vorremmo garantire una certa continuità con il governo precedente, ad esempio nel caso del Bilancio. Mentre per la Scuola, oltre a rafforzare l’apprendimento della lingua inglese, vorremmo potenziare l’ebraico e le materie di cultura ebraica.
Quanto al Rabbinato, anch’esso andrà rafforzato: non è pensabile che Rav Alfonso Arbib possa essere onnipresente e ubiquo, presenziare a funerali, matrimoni, ghiurim, e poi dirimere controversie famigliari, fare lezione, essere presente presso le istituzioni cittadine e ancora, infine, intraprendere un percorso di dialogo interreligioso con le altre fedi, oggi fondamentale in una città multietnica come Milano… Insomma, occorrono figure che lo affianchino su questi fronti, e lo aiutino in una gestione così complessa».

Un governo di larghe intese, quindi? Sembrerebbe di sì, almeno nelle intenzioni. L’Italia post-Covid oggi è dominata dalla paura, dall’incertezza del futuro e questo tocca tutti, aggiunge il neo Presidente. E prosegue: «La nostra è una Comunità composita, che ha molte anime, e non sempre vanno nella stessa direzione». Restare in equilibrio, gestire le diversità all’interno della Comunità richiede una certa dose di savoir faire. Ma come si fa a mettere in piedi un Consiglio che collabori? «Lo ripeto: dobbiamo sbattere fuori la politica dalla Comunità, non dobbiamo fare come fa il nostro governo in Italia; gli ebrei a Milano sono sempre meno numerosi, dobbiamo essere alleati fra noi. Guardando al futuro, dobbiamo abbassare tutti i toni e per questo ognuno faccia un passo indietro, il primo della lista sono io. Andare d’accordo è un dovere civile e morale. Cercare l’appoggio di tutte le componenti politiche del Consiglio vuol dire garantire sopravvivenza, prospettiva e continuità alla Kehillà di Milano. Ovviamente, nel rispetto delle opinioni diverse e del confronto politico».

Meghnagi ribadisce anche stavolta l’opzione conciliatoria, uno stile che non indulge in rigidità di principio o ideologiche. Riuscirà a disinnescare conflitti e polarizzazioni pericolose? Governare, si sa, è l’arte dell’equilibrio dialettico, l’arte della “dissimulazione onesta”, la ricerca di stabilità nell’instabilità.
«Dobbiamo dimostrare a noi stessi di poter lavorare insieme, consapevoli che nessuno è migliore degli altri. Non dimentichiamo che il Bet HaMiqdash, il Tempio di Gerusalemme, fu distrutto a causa dei conflitti intestini e della mancanza di unità tra gli ebrei. La nostra storia ci mostra i pericoli da cui guardarci e le trappole da cui stare lontani».