di Marina Gersony
Andato al Nova per aiutare il fratello che gestiva uno stand gastronomico: “Taboonia”, un omaggio al forno di pietra (taboon) usato dalle madri druse per cuocere la tradizionale pita. Era una festa. Fino a che non è arrivato l’inferno. Tornato negli Stati Uniti, Raif ricomincia da un piccolo banchetto in un mercato del New Jersey. Poi nell’Upper West Side, a Manhattan. Non era più solo uno stand gastronomico: era un monumento vivente a chi non c’era più.
Il 7 ottobre 2023, il giorno dell’orrore. Un giorno iniziato con la musica e il sole del deserto e poi finito nel sangue e nel silenzio. Doveva essere una celebrazione della vita il Nova Festival, una danza sotto le stelle del Negev. Ma per centinaia di giovani, è diventato un massacro. Le immagini di quel giorno hanno fatto il giro del mondo, ma dietro ai numeri e alle notizie, ci sono vite spezzate. E alcune, miracolosamente, sopravvissute.
Tra quelle vite c’è quella di Raif Rashed, ingegnere druso di 40 anni, con il cuore diviso tra il suo villaggio natale di Isfiya, sul Monte Carmelo, nel nord di Israele, e la sua nuova vita negli Stati Uniti. Raif quel giorno maledetto non era lì per ballare, ma per aiutare il fratello, Radda, che gestiva uno stand gastronomico: “Taboonia”, un omaggio al forno di pietra (taboon) usato dalle madri druse per cuocere la tradizionale pita. Era una festa. Fino a che non è arrivato l’inferno.
Sul sito Jewish News viene raccontata la storia di questo sopravvissuto che ha assistito alla tragedia con i propri occhi. Raif ha visto morire Erick Peretz, suo amico, mentre tentava disperatamente di proteggere la figlia Ruth, sedici anni, affetta da paralisi cerebrale. Hanno cercato riparo dietro un’ambulanza, che è stata poi data alle fiamme. I loro corpi sono stati trovati giorni dopo. «L’ho visto morire davanti ai miei occhi. Non ho potuto fare nulla», dirà poi Raif. Il senso di colpa non lo ha più abbandonato, ma nemmeno la determinazione a fare in modo che la sua vita avesse un nuovo senso, un obiettivo, un motivo per andare avanti.
Dopo l’attacco, il suo passaporto fu rubato. Bloccato in Israele per mesi, Raif vagava tra i ricordi e il dolore. Ma c’era una cosa che lo calmava, che lo aiutava a placare l’ansia: cucinare. Riprendere in mano le ricette della madre, i profumi dell’infanzia, le mani nella farina. Pane, za’atar, olio d’oliva. In un mondo che sembrava in frantumi, il cibo diventava memoria, rifugio, ricostruzione.
Tornato negli Stati Uniti, Raif abbandonò l’ingegneria. Scelse di dare voce a qualcosa di più profondo. Ricominciò da un piccolo banchetto in un mercato del New Jersey. Poi nell’Upper West Side, a Manhattan. Il nome? Sempre lo stesso: Taboonia. Ma ora aveva un nuovo significato. Non era più solo uno stand gastronomico: era un monumento vivente a chi non c’era più, un luogo dove il dolore si trasformava in comunità, e il lutto in sapore.
La comunità rispose. Gente da ogni parte della città si fermava non solo per il manakish croccante, pizzette diffuse nella cucina mediorientale, o il labneh speziato, ma per ascoltare. Perché Raif non serviva solo cibo: raccontava. Di sua madre che impastava all’alba. Di Ruth, la ragazza dai grandi occhi, che amava la musica anche se non poteva danzare. Di Erick, che le teneva la mano. Raccontava del 7 ottobre. Ma parlava anche dei giorni a venire. I giorni in cui si decideva di vivere ancora.
Lì, in mezzo ai tavoli di legno e ai profumi del Levante, è nato un sogno più grande. Raif ha incontrato Ray Radwan, anche lui druso, cresciuto nel New Jersey ma con le stesse radici di pietra e vento. Insieme, hanno deciso di aprire un vero ristorante, nel cuore di New York. «Non sarà solo cibo. Sarà un ponte», dice Raif. Un ponte tra culture, tra dolore e rinascita, tra Israele e America, tra le generazioni.
Taboonia è oggi il primo ristorante druso di New York con la certificazione kosher. Una scelta coraggiosa e significativa. Raif lo spiega con semplicità disarmante: «È un modo per rispettare. Per accogliere. Per dire che qui c’è posto per tutti»
Chi entra nel suo ristorante, spesso si ferma a leggere le piccole dediche scritte sui tovaglioli appesi alle pareti: «Per Ruth, che amava le stelle»; «Per Erick, che non ha mai lasciato la mano di sua figlia»; «Per la musica che un giorno tornerà a suonare». C’è anche una frase, scritta da una giovane sopravvissuta che ha visitato il locale: «Il dolore ci ha legati, ma è l’amore che ci tiene vivi».
Taboonia è diventato un simbolo. Della forza che nasce dalla fragilità. Dell’identità che si rinnova. Della memoria che, invece di chiudere, apre. È il racconto di un uomo che ha scelto di rispondere alla morte con il pane. Alla violenza, con l’olio e il za’atar. Alla perdita, con una tavola imbandita.
E in un mondo dove le notizie appaiono e scompaiono come lampi che anticipano i temporali, dove le tragedie si accavallano una sull’altra, Taboonia ci ricorda che ogni piatto può essere una preghiera. Ogni morso, un ricordo. Ogni tavola, un altare della vita. Raif non è un eroe. Ma ha compiuto un miracolo: ha trasformato il lutto in sapore, e il sapore in speranza. Perché la speranza, nell’ebraismo, non è un semplice concetto, ma un respiro vitale che attraversa ogni fibra dell’anima. È la Tikvà, che racchiude il significato di “attesa fiduciosa” o “speranza”. Non un ottimismo effimero, superficiale, fine a se stesso. Ma un atto profondo di fede. Una fede incrollabile in un futuro migliore, in un mondo che, nonostante le sue ferite, un giorno si risolleverà, ritrovando la sua pienezza e bellezza.