Israele in lutto: il dramma dei Bibas, il dramma di ognuno di noi

Personaggi e Storie

di David Zebuloni
Cammino per le strade di Tel Aviv e stento a riconoscerla. Non la ricordo così triste e spenta da quel primo mese di guerra, scoppiata in seguito al pogrom del 7 ottobre, quando ancora si cercavano e contavano i morti. Un braccio, una gamba, un cranio. Israele metteva insieme i pezzi. Uno a uno. Chi era stato ucciso? Chi era stato rapito? Chi ancora si stava nascondendo pensando che i terroristi girassero a piede libero nel paese? Un mese di caos e shock allo stato puro. Poi caos e shock sono andati scemando, lasciando spazio solo a quel nuovo dolore inedito, così assoluto e devastante. La notizia dell’uccisione dei Bibas, dopo essere stata confermata e ufficializzata dal governo israeliano, ha riportato Israele ai giorni del caos e dello shock, oltre ai giorni di dolore mai svaniti. L’idea di una mamma brutalmente assassinata nei tunnel del terrore insieme ai suoi due bambini, ha destabilizzato lo Stato Ebraico più di qualunque altra tragedia abbia colpito il paese nell’ultimo anno e mezzo. Il peggio? Quasi. Nulla è paragonabile al senso di smarrimento che ha seguito la notizia resa nota dal portavoce dell’IDF la scorsa notte: il corpo restituito della mamma uccisa, non è effettivamente quello della donna-ostaggio rapita il 7 ottobre, ma di un’altra donna sconosciuta. La mamma in questione è Shiri Bibas e i due bambini sono Ariel e Kfir, rapiti rispettivamente quando avevano quattro anni e nove mesi. Solo nove mesi. Il più giovane ostaggio della storia moderna.

Il colore dei loro capelli è diventato uno dei simboli di questa guerra. Un arancione che a volte tende al giallo e dà speranza poiché illumina come il sole, e a volte tende al rosso, simile al sangue, e lascia presagire quanto di peggio possa accadere. E il peggio è accaduto. Le bare dei due piccoli, insieme alla bara della loro mamma e di Oded Lifshitz (un uomo mite, un nonno di 85 anni, residente a Kibbutz Nir Oz, ex giornalista e attivista per la pace. Ma che macabra ironia. Quale pace? La pace con chi? Con i suoi assassini?), sono state esposte come trofei su un palcoscenico ben congegnato dai fanatici islamisti. Fanatici non solo di morte, ma anche di esposizione sociale. Ogni esecuzione diventa dunque uno spettacolo teatrale. File di assassini acclamati da quella che dovrebbe essere una popolazione vittima di un presunto genocidio. E il popolo israeliano che assiste a tutto ciò impotente.

“Non possiamo guardare queste immagini. Non possiamo cedere alla propaganda di Hamas. Non possiamo permettere che ci torturino a loro piacimento. Ma non possiamo fare altrimenti. I corpi di Ariel e Kfir stanno per tornare a casa. Non possiamo non esserci”, mi ha riferito una collega locale. Ed ecco che il suo dilemma diventa il dilemma di un intero popolo. Un popolo conscio delle sadiche capacità del nemico di manipolare le menti, di generare distruzione nei cuori e negli animi nonostante vi sia una tregua in corso, ma costretto a fare il suo gioco per non diventare disumano come lui. Così, decine di migliaia di israeliani scendono in piazza per onorare i propri figli uccisi da quel male assoluto che è il terrorismo islamico. E il cielo si riempie di palloncini arancioni. E gli occhi si riempiono di lacrime. E il cuore si riempie di una nuova-vecchia consapevolezza: Israele non può esistere se al di là del confine vi è Hamas.

Nonostante i molti wannabe illuminati sparsi in Europa e, come no, anche Italia, si ostinino a spiegare a Israele – con insopportabile fare saccente, peraltro – che l’unica via di convivenza con il nemico è la pace, Israele sa, purtroppo a sue terribili spese, che nel vocabolario di Hamas la parola pace non esiste. Non è mai esistita. Una consapevolezza che ha tentato di trasmettere numerose volte a quella fetta di mondo (ancora) libero, ma senza alcun successo. Quest’occidente sempre più cieco e retorico si ostina a vedere il bene nel male e il male nel bene, predicando pace senza sapere cosa sia la guerra. Predicando amore senza avere idea di cosa sia l’odio. Quello vero. Viscerale. Ideologico. Religioso. “Voglio ribadire due verità assolute”, ha dichiarato a questo proposito il Presidente israeliano Isaac Herzog in visita al Tempio Maggiore di Roma la sera stessa in cui Hamas ha dichiarato il rilascio imminente dei corpi della famiglia Bibas. “Il dovere supremo di riportare a casa gli ostaggi e la consapevolezza di essere davvero davanti al male assoluto. Contro questo male dobbiamo rimanere uniti”.

Due verità effettivamente assolute che, tuttavia, oggi sembrano scontrarsi: il bisogno indiscutibile di liberare gli ostaggi israeliani e l’altrettanta indiscutibile necessità di combattere il male fino alla sua estinzione. E mentre il popolo israeliano riflette su questi temi esistenziali, decidendo cosa sia giusto e cosa sia sbagliato, o cosa sia più sbagliato e cosa sia meno sbagliato, un altro ostaggio ha smesso di vivere questa mattina: Yarden Bibas. Marito di Shiri, padre di Ariel e Kfir. Il quinto morto rilasciato da Hamas, nonostante sia già stato liberato in vita. Un morto che cammina, che respira, che vede, che sente, ma che non ama. Che non amerà più, se non i suoi angeli in cielo. Yarden Bibas racchiude in sé il dolore di un popolo, di un paese intero. Il dolore di Israele. Forse, di chiunque possa ancora definirsi umano.