Dopo la tragedia del 7 ottobre, la forza di raccontare e sperare: l’incontro con Sapir e Yelena, due ex-ostaggi a Gaza

di Ilaria Myr
Cinquantacinque giorni da ostaggi a Gaza, in condizioni terribili, senza sapere se i tuoi sono ancora vivi. Cinquantacinque giorni in cui dover trovare la forza tutti i giorni, anche nella preghiera, senza sapere cosa capiterà. E poi, la gioia della liberazione, e la tristezza per chi non c’è più o chi è ancora ostaggio. Soprattutto, la speranza viva che tornino a casa, e l’appello a tutto il mondo ebraico a pregare e battersi per la loro liberazione.

Sono tutte emozioni molto intense quelle che hanno ascoltato e provato i tanti partecipanti – l’Aula Magna Benatoff era piena da scoppiare – durante la testimonianza di Sapir Cohen (a sinistra nella foto) e Yelena Trufanov (a destra), due donne israeliane prese in ostaggio a Gaza il 7 ottobre dal Kibbutz Nir Oz e liberate dopo quasi due mesi (il 29 novembre Yelena e il 30 novembre Sapir). L’incontro, tenutosi martedì 19 marzo nella Scuola ebraica di Milano, si è svolto in un’atmosfera quasi sospesa, di rispetto e silenzio per non urtare la sensibilità delle due testimoni, che il giorno prima erano intervenute alla cena di gala della mensa sociale Beteavon, e il giorno stesso alla scuola del Merkos. Inoltre, con il consigliere comunale Daniele Nahum, le due donne sono state ascoltate a Palazzo Marino dal sindaco Giuseppe Sala (al centro nella foto).
Ad accompagnarle, Harry Adjmi, responsabile della comunità ebraica siriana di New York. Presenti Rav Alfonso Arbib, tutti i membri del consiglio della comunità ebraica di Milano e dei Chabad.

Per non urtarne la sensibilità è stato richiesto di non fare foto e video: per questo motivo mettiamo qui foto scattate durante la visita a Palazzo Marino.

Visita a Palazzo Marino. Da sinistra, Rav Igal Hazan, Sapir Cohen, Yelena Trufanov. Di fronte il sindaco di Milano Giuseppe Sala e il consigliere Daniele Nahum
Visita a Palazzo Marino. Da sinistra, Rav Igal Hazan, Sapir Cohen, Yelena Trufanov. Di fronte il sindaco di Milano Giuseppe Sala e il consigliere Daniele Nahum

 

Introducendole, la rebbetzin Rivki Hazan ha sottolineato l’attualità del messaggio di unità della festa di Purim che fra pochi giorni celebriamo: “Hamman cercò di distruggere gli ebrei, che erano integrati e vivevano bene nell’impero, perché erano sparsi e divisi – ha spiegato -. Ma la regina Ester chiamò gli ebrei a essere uniti. La nostra forza è l’unione fra noi, e spero che la nostra bella comunità sia sempre più unita”.

Dopo i ringraziamenti del vicepresidente Ilan Boni e di Rav Arbib, Sapir Cohen ha iniziato il suo racconto.

«In realtà questa storia inizia sei mesi prima del 7 ottobre – ha raccontato -. Ho cominciato a sentire che qualcosa di brutto mi sarebbe capitato: un dottore mi ha curato da un virus che avevo, ma mi ha anche detto “non è pericoloso come i tuoi sentimenti”. Non gli ho creduto e per la prima volta nella mia vita ho cominciato a pregare. Poi un giorno, per caso, mi è uscito su Instagram il testo di uno dei tehilim (Salmi), il 27, ed era scritto che se lo si recitava per 30 giorno di seguito saresti stato sano e sarebbero capitati dei miracoli. Il 30° giorno era il 7 ottobre».

La giovane donna ha spiegato che quel weekend lei il suo fidanzato Sasha dovevano andare per Simchat Tora al Kibbutz Nir Oz, dove vivono i genitori di Sasha, Yelena e il padre Vitaly, ucciso dai terroristi. «Lui non sapeva perché, ma non se la sentiva di andare, ma io ho insistito… Quel sabato 7 ottobre ci siamo svegliati con un barrage di missili, ma dato che eravamo lontani da un rifugio e i missili cadevano senza sosta ci siamo messi per terra vicino a un muro. Dopo un’ora un messaggio ci ha avvisato che c’erano terroristi nel Kibbutz Be’eri, a 15 minuti dal nostro e, poco dopo, un articolo online raccontava che ce n’erano in tutta la zona e che non c’era l’esercito. Da sotto il letto, dove ci eravamo nascosti, abbiamo poi sentito “Allah hu akbar” e urla di terroristi e di abitanti del kibbutz che venivano picchiati rapiti e uccisi. Eravamo pietrificati: io mi sono nascosta sotto una coperta, ma ripetendo il salmo 27, che avevo imparato a memoria, mi sentita in pace. Poi sono entrati in casa e hanno preso e distrutto tutto. Ho sentito il mio ragazzo urlare, e poi in dieci hanno preso anche me da sotto la coperta. L’ultima volta che l’ho visto era in ginocchio, con il viso sanguinante. Mi hanno caricato su una moto e mi hanno portato a Gaza, lui è ancora ostaggio lì».

Arrivata a Gaza, Sapir viene accolta da migliaia di cittadini che urlano incoraggiamenti festanti ai terroristi, la picchiano e la toccano. Lì passa un mese in una casa e un mese nei tunnel.

«Ogni giorno sentivo che accadevano miracoli e il più grande è che ho capito che c’era un motivo per cui io ero lì – ha raccontato -. Ero con una ragazza di 16 anni, terrorizzata e fragile, e ho capito che avevo la responsabilità di renderla felice, mi sono sentita forte e potente. Gli stessi terroristi non capivano come potessi essere felice in quelle condizioni. Uno mi disse “tu illumini la stanza”. Ogni giorno ripetevo la preghiera e ringraziavo Dio per avermi mandato lì per usare questa mia forza e di sostenermi con gli angeli. E quando tornata in Israele ho visto e sentito quanta gente aveva pregato per me, ho capito che gli angeli che sentivo non erano solo nella mia immaginazione».

Nel suo racconto, Sapir ha ricordato gli altri ostaggi, alcuni ancora prigionieri. «Alcuni mangiano solo una pita al giorno, alcuni sono costretti a bere acqua di mare, che fa malissimo al corpo, altri sono stati picchiati e feriti, o sono malati. Ma quello che ti uccide ogni giorno di più è il fatto di non sapere dove sono i tuoi cari, se sono vivi o sono stati uccisi durante l’attacco, o se sono anche loro in ostaggio».

Anche Sapir ha parlato dell’importanza dell’unità del popolo ebraico. «Un giorno un terrorista mi ha chiamato per vedere la tv, che trasmetteva una grande manifestazione a Tel Aviv per la liberazione degli ostaggi, tutti insieme. Prima del 7 ottobre, invece, la società israeliana era profondamente divisa. “Vedi – mi ha detto il terrorista -, quando sono così tutti insieme gli ebrei sono molto forti”».

In conclusione, è intervenuta Yelena Trufanova (50 anni), madre del fidanzato di Sapir, Sasha, rimasta vedova il 7 ottobre del marito Vitaly, anch’essa presa in ostaggio a Gaza e liberata il 29 novembre, insieme alla madre Irena Tati (73 anni) grazie a un accordo fra la Russia e Hamas. «Non sapevo nulla della mia famiglia – ha dichiarato in ebraico, quasi sottovoce – e avevo paura che fossero tutti morti. Mi hanno bruciato la casa e hanno ucciso mio marito. Ora dobbiamo tutti pregare che gli ostaggi ritornino a casa. Prego che il mio unico figlio torni sano e salvo e che possa costruire una bella famiglia con questa splendida ragazza».

Sapir ha infine recitato il salmo 27 e le due donne hanno risposto con pazienza e disponibilità  ai saluti affettuosi dei membri della Comunità di Milano.